Questo è l’articolo che Angelo Gaja non avrebbe mai voluto leggere, perché lui ha un mantra tutto suo: PENSARE DIVERSO e guardare avanti. Glielo insegnò il padre, che era un tipo tosto, tant’è che non si mise a rimirare la laurea del figliolo, ma lo mandò a Belluno a vendere il vino nei locali di quella cittadina. Belluno capite? Ecco se Angelo fosse riuscito a Belluno – pensò il padre di fronte a un figlio che evidentemente aveva dei numeri – poteva fare qualsiasi cosa, anche quella roba strana che insegnavano all’università e che nella Langhe manco sapevano pronunciare: “marketing” (regolarmente tradotto nel dialettale “mac balì” ovvero solo fandonie). Nato nel cuore delle Langhe il 7 marzo del 1940 Angelo Gaja rimane un esempio di lungimiranza, sostenuto da una famiglia bellissima, con la solare moglie Lucia al suo fianco, i figli Gaia, Rossana e Giovanni, tutti impegnati in azienda.
Il 7 di marzo 2010 è una data speciale: 225 anni fa nasceva Alessandro Manzoni, ma solo 70 anni fa vagiva anche Angelo Gaja, figlio di quel Giovanni che iniziò a tracciare la strada a chi sarebbe diventato il re del Barbaresco. Ma domenica Angelo non sarà a festeggiare in quel paesino che non arriva a 500 anime: la moglie Lucia e i tre figli lo hanno portato via, a sorpresa. E dove si porta un piemontese per farlo sentire a casa se non in Francia?
È una predestinazione: sua nonna Clotilde Rey nacque al confine con la Francia per morire proprio nel 1961, quando Angelo comincia a lavorare in azienda per fare un percorso di marketing originale che porterà alle stelle l’azienda di famiglia che lo scorso anno ha compiuto 150 anni. Nel 1964, poi, altra annata del secolo, Angelo fa un viaggio in Borgogna che lo segnerà.
Certo di Gaja s’è ormai detto tutto, e anni fa un giornalista americano, Steinberg, riuscì persino a scrivere un libro intero su di una sua vigna, «Sorì San Lorenzo», cui Angelo destinò il cru di un Barbaresco divenuto celebre, insieme ai Sorì Tildin e al Costa Russì. E questo quando ancora non aveva modificato la denominazione dei suoi Barbaresco, il cui disciplinare di produzione, forse, gli andava stretto. Oggi quei «cru» hanno la doc «Langhe», mentre il vino che porta il nome del suo paese è semplicemente Barbaresco. Fu una svolta compiuta ormai tre lustri fa, che solo «Le Roi» poteva permettersi di fare senza intaccare la fama dei suoi vini. Ma chi è Angelo Gaja?
Una persona apparentemente schiva, che ama la famiglia e la sua terra, legge tanti giornali e in casa non ha mai tenuto la televisione. È abituato a tagliare corto. Ed è un genio, se penso a quando nel 1991, a San Francisco, vidi la gente che lo fermava per strada; i suoi vini erano sulle carte dei migliori ristoranti e costavano almeno il doppio di un qualsiasi altro vino italiano, mentre lui aveva stretto alleanze con Francis Ford Coppola, la figlia di Walt Disney e altri produttori di vino della California, dello Champagne e di varie parti del mondo, per distribuire i loro vini. Questo gli ha permesso di produrre le sue 300 mila bottiglie tenendole sempre ad un livello di prezzo da prodotto mitico. Angelo Gaja è uno che non ti chiamerebbe mai per una critica, ma se scrivi tra le pieghe di un articolo che in un'osteria di Cavaglià la gente beve tranquillamente i suoi vini, vuole sapere per filo e per segno chi erano quelle persone. Oppure può capitare che una bottiglia sappia di tappo e lui che chiama, si informa, si inquieta, come quella volta che Sylvester Stallone ne scopri ben tre e fu il finimondo.
Così facendo, m’ha ricordato la puntigliosità di un altro langhetto di successo come Michele Ferrero, la cui forza sta nella cura personale dei suoi prodotti. Gaja è così: cammina col piglio di un generale asburgico, ma dentro è solare e si nutre di rapporti autentici: come con Luigi Veronelli, con cui ebbe un rapporto dialettico, ma pieno di stima, tanto che uno dei sogni del principe della critica enologica fu un libro – mai scritto - sull’Angelo del Barbaresco.
Dalla cantina, ieri sera, ho prelevato allora una delle sei bottiglie dedicate a mio figlio, che di nome fa Giovanni, come suo figlio e suo padre: il Darmagi 1996, quel cabernet che porta il nome di «dispiacere» (darmagi!) nome preso in prestito dal commento del vecchio Gaja quando seppe che Angelo aveva piantato in Langa viti esterofile. L’ho aperto e aveva un profumo di mandorla intensa e poi d’erbe di campo; un’eleganza infinita: era fresco, forte, con un finale ammandorlato di straordinaria piacevolezza.
E se il vino di suo padre era il Barolo, che pure lui ha ricominciato a produrre (si chiama Sperss), il vino di Angelo è sicuramente questo Darmagi che guarda al mondo. Mentre c'è da giurarci: il vino che un giorno a modo loro faranno Gaia, Rossana e Giovanni, i suoi tre figli, sarà fuor d'ogni dubbio lui: il Barbaresco.