Che sorpresa la Romagna dell’interno!

Ruenza Santandrea, presidente Consorzio Vini di Romagna, nei Dialoghi del Vino

05.05.2021

Ruenza Santandrea è una persona davvero speciale che ho conosciuto alcuni anni fa durante un’edizione di ViVite a Milano, una bella fiera dedicata ai vini delle cantine cooperative. Tosta, romagnola, con casa sulle colline faentine, è la simpatia fatta persona e oggi, che ricopre l’incarico di presidente del Consorzio Vini di Romagna, si capisce che il ruolo è tagliato su misura per lei. Eh sì, perché nata nel mondo cooperativo ha il senso delle relazioni e quando con lei vai a trovare i vari produttori, avverti come uno stato nascente per i vini di Romagna. L’ho incontrata alle 19 di martedì scorso in un hotel di Faenza, alla vigilia di una degustazione di 240 campioni di vino insieme al collega Daniele Cernilli. E ne ho approfittato per un dialogo sul vino, di quasi due ore, perché Ruenza è un fiume in piena quando parla della sua terra. Vorrebbe portarti da tutte le cantine associate, e prima o poi ce la farà, ma quando ne parla senti che ti coinvolge in un che di familiarità. In auto il giorno dopo chiama Sandro Santini, perché vuole che ci spieghi il progetto della Rebola, ma intanto ha organizzato tre light lunch (con le tagliatelle naturalmente) in tre cantine, per favorire l’immersione e il racconto nella Romagna del vino.

Ruenza è sposata e ha due figli. Studi a indirizzo tecnico commerciale, dopo un percorso in uno studio professionale, a 27 anni assume la direzione amministrativa della Cantina Sociale COPA di Faenza. A 30 anni apre uno studio professionale (consulenza di direzione e attività di sindaco revisore), collaborando alla costituzione di importanti consorzi del mondo produttivo romagnolo fino al 2005 quando, accettando la presidenza del Gruppo Cevico e delle società controllate, lascia progressivamente l’attività consulenziale. Quindi ricopre il ruolo di responsabile nazionale settore vino di Alleanza delle cooperative, lanciando ViVite, il festival del vino cooperativo, e promuovendo il coordinamento europeo cooperativo del vino con francesi e spagnoli. Ha partecipato inoltre, presso il Ministero dell’Agricoltura, al gruppo dei 5 esperti che hanno lavorato al padiglione del Vino di Expo 2015. Ha ricevuto il premio di Voice of Wine 2019 alla WBWE di AMSTERDAM per il lavoro svolto a sostegno del mondo vinicolo europeo. E, dopo aver lasciato la presidenza Cevico al termine del quarto mandato, lasciando anche gli incarichi ad esso collegati, attualmente ricopre la presidenza di Bolè srl, società nata per produrre e lanciare lo spumante Romagna Doc; infine, da neppure un anno, la presidenza del Consorzio Vini di Romagna.

Ruenza cosa mi dici se mi metto a cantare “Evviva la Romagna, evviva il Sangiovese"?
Ti rispondo che è un modo vecchio, sorpassato, di rappresentare i vini romagnoli.

La Romagna ha fatto un cambiamento epocale. Quindi non si canta più e non solo perché Casadei se n’è andato...
Eh no, intendiamoci, la Romagna e la piadina scaldano il cuore, lo sai, ma questo fatto non è stato un vantaggio per il racconto dei produttori e dei loro vini.

Sai che me ne resi conto nel 2005 quando a Rimini, durante una fiera, volli rappresentare i migliori prodotti del Golosario attraverso un ristorante, dove avevo scelto un vino eccezionale per ogni regione. Della vostra, c’era un Sangiovese (il Calisto di Stefano Berti) che per me e Marco Gatti era notevole, e il Lambrusco di Sorbara di Paltrinieri. Ma nessuno chiedeva quei bicchieri ed io mi rattristai. Poi capii il motivo guardando com’era allestito il ristorante Tosco Romagnolo di fianco, col Sangiovese alla spina.
È la nostra storia. In Romagna il vino c’era, si beveva da migliaia di anni, era un alimento… ed è come se in patria fosse una cosa scontata. Al viandante si offriva il vino, innanzitutto. Poi quando siamo usciti dai periodi bui di povertà assoluta, ha preso il vento il folklore.
E quindi Casadei...
Hai visto quanti ne hanno parlato? Che pubblicità? Anche lui ha avuto un merito: ha fatto la fortuna della Riviera e i ristoranti hanno sempre fatto in modo che i clienti fossero contenti: buon cibo in primis, allegria e vino al prezzo più conveniente.

Ma tu impazzivi per Casadei?
Dai, non scherzare: Casadei era solare, ma a me piacevano i Beatles.

Senti, una sera a Milano con Marco Gatti, davanti a 50 persone, eravamo al Mama Cafè, facemmo una degustazione alla cieca di tre Sangiovese: uno di Bolgheri, uno della zona di Montalcino e uno della Romagna. Sai che vinse il romagnolo?
Lo immagino, e non per partito preso.

E lì cominciammo a pensare che forse i Romagnoli avevano iniziato a smetterla di vendere il vino ai Toscani. Ti ci ritrovi?
In parte è vero, ma è una storia legata al confine, e quindi come in tutti i casi il vino va dove c’è convenienza di mercato. Però anch’io quando ho avvertito quel cambiamento che dici tu, che stava diventando massa critica, ho pensato che la battaglia doveva essere: “Cari produttori, state facendo vini buonissimi, dovete farveli pagare per il valore che hanno”, e abbandonare una storia legata al folklore.

Ma tu quali leve useresti per questa svolta?
La scorsa estate per esempio abbiamo fatto un lavoro identitario insieme a diversi docenti universitari, partendo dalla formazione geologica del sottosuolo, che è unitaria: dai suoli, il clima, la storia e le tradizioni. Per uscire da quella Romagna indistinta che sembra non avere confini. Diceva Nozzoli che la Romagna è una terra senza confini, che non si riconosce dai boschi, dai monti, dai fiumi, ma dalla gente e dalle sue abitudini, non una regione geografica dunque, ma una regione del carattere, un’isola del sentimento, un pianeta inventato dai suoi abitanti. Questa definizione mi piace molto, perché il vino è cultura, perché è un prodotto della conoscenza e del coinvolgimento di un essere umano con un dato territorio.

Emilia o Romagna?
Due mondi diversi. A partire dal VI secolo siamo stati terra dell’Impero Romano d’Oriente, rinchiusi nei territori che vanno da Imola a Rimini, dal mare Adriatico fino al crinale appenninico, con capitale Ravenna che esprime i più bei mosaici bizantini che ci riportano al Bosforo e quindi alla Romagna-Bizantina se vuoi. Abbiamo consuetudini diverse.
Affascinante questo approccio, perché è dalla storia che si capisce tutto della socialità di un territorio, dell’economia...
Ma certo. La Romagna per esempio è sempre stata sotto il dominio dello Stato Pontificio e questo come in qualsiasi conflitto fra Stato dominante e popolo ha creato reazioni politiche differenti. Noi non avevano grandi famiglie nobiliari, avevamo dei signorotti vicari del Papa in perenne lotta tra di loro, che hanno disseminato di rocche e bastioni tutta la Romagna e che spesso erano talmente poveri da arruolarsi come soldati di ventura. Muzio Attendolo soprannominato Sforza, per via della forza fisica, Taddeo della Volpe, Dionigi Naldi, Giovanni dalle Bande Nere, solo per nominare alcuni dei più noti. E questa la dice lunga sul carattere sanguigno dei romagnoli.

Anche la cucina ne ha risentito?
Certo, si è caratterizzata dentro le mura fortificate delle città, attorno a dinastie specifiche: i Manfredi a Faenza, i Malatesta a Rimini, gli Ordelaffi a Forlì, i Da Polenta a Ravenna. E gli Sforza poi, con la grande Caterina a Forlì e Imola.
Che c’entrano gli Sforza?
Il fondatore della dinastia era un romagnolo che aveva fatto fortuna come soldato di ventura.

Torniamo al vino...
I primi documenti sul sangiovese datano al 1590 in Toscana col nome di sangioveto e in Romagna col nome di sangiovese nel 1625, sulle colline al confine tosco-romagnolo, ad opera dei monasteri Vallombrosani; praticamente è disceso dai passi appenninici verso le vallate nello stesso periodo.

Ma al di là del nome simile, dove sta la distinzione?
In Romagna il sangiovese si è sempre vinificato in purezza; in Toscana, prevalevano gli uvaggi con sangiovese. Differenza sostanziale direi.
Quindi vuoi dire che una certa storia ha dimostrato che fra Borgogna (Romagna) e Bordeaux (Toscana) ha vinto la seconda?
No, lo sai anche tu che Borgogna e Bordeaux piacciono entrambe nel mondo. Il problema è iniziato quando in Romagna hanno voluto copiare i toscani e quindi inseguire gli uvaggi e l’uso delle barrique. Da noi c’erano le botti grandi.

Un’ubriacatura da anni Ottanta, si può dire?
Si può dire, anche se man mano l’identità è stata recuperata e i produttori sono tornati a produrre orgogliosamente sangiovese in purezza, sia nelle riserve che nei vini giovani, con punta di diamante nei Sangiovese delle Sottozone. Rispolverando tra gli altri anche gli abbinamenti con pesce dell’Adriatico (come da noi si era sempre fatto).

Sì, era noto che i pescatori usassero il vino rosso con le “poveracce”.
Ma anche con la cipolla!

La cipolla?
Pane e cipolla era il mangiare poverissimo dei contadini. Ma sai che se lo provi adesso, con un bicchiere di Romagna Sangiovese, ti tonifica?

Prima o poi lo faremo, ma intanto questo recupero di identità vuol dire anche distinzione di zone...
Infatti, oggi sono 12 le sottozone del Romagna DOC: Bertinoro, Brisighella, Castrocaro, Cesena, Longiano, Marzeno, Meldola, Modigliana, Oriolo, Predappio, Serra, San Vicinio, a cui se ne aggiungeranno a breve altre 4: Imola e le riminesi Verucchio, Coriano e San Clemente.

Questa diversità è una ricchezza dunque?
Certo, perché recepisce le differenze ed ogni zona ha la sua riconoscibilità. Mettici poi che si è smesso di usare certi strumenti omologanti, per tornare alla botte grande o al cemento, e la strada sembra segnata. (Due giorni dopo, a pranzo da una cantina fra le prime del territorio a credere nella qualità dei vini di Romagna, abbiamo avuto l’esatta documentazione del cambio di passo, voluto dalla nuova generazione. NDR)

C’è poi un altro vino che avete solo voi e che si esprime in maniera particolare: l’Albana.
L’Albana ha una storia fantastica, che ci riporta al 1300. La sua particolarità è di essere coltivata sui terreni della cosiddetta “vena del gesso”, il che le dona un’espressione particolare.
L’Albana era un mito, sai che la cita anche Guareschi nei racconti di Peppone e don Camillo?

Quella sarà stata un’albana amabile, oggi i produttori hanno imparato a vinificarla secca, superando la sua tendenza a ossidarsi, e sembra avere il corpo (e i tannini) di un rosso. Il vitigno albana è una vera macchina da zuccheri e l’uva dolcissima a maturazione ha di norma anche una spiccata acidità, il che fa dell’Albana passito un vino straordinario. Oltre a Guareschi, l’albana era menzionata per la stipula dei contratti notarili per il riconosciuto valore intrinseco del vino che produceva. Era il vino delle corti rinascimentali, come pure, tra i bianchi, il trebbiano. Ora in gran parte vinificato nella pianura alluvionale a nord della Via Emilia, che funge da divisione rispetto alla parte collinare, il trebbiano è un vitigno molto vocato alla produzione di vini spumanti e frizzanti.

Cosa rappresentano questi vitigni?
Questi vitigni e vini sono le colonne della grande Romagna del vino, ma poi troviamo nel nostro territorio una profusione di vini rari. Per esempio la Cagnina, un rosso dolce che va forte all’estero, in Germania e America soprattutto.

Pazzesco, come il Sangue di Giuda in Oltrepò Pavese. Ma poi avete il Burson, il Centesimino e fra i bianchi il Famoso e il Pagadebit che invece piace in Inghilterra.
Sì, anche questi continuano ad essere in produzione e io credo che siano una ricchezza. Sta prendendo piede il grechetto gentile, ad esempio, che dà origine alla Rebola nell’areale riminese, e poi c’è il Trebbiano che va distinto, perché una storia è quello di pianura, un’altra è quello di collina che ha rese più basse e si esprime maggiormente nei profumi e non solo nella bella acidità. Come vedi, non si può immaginare o parlare di una regione come di un corpo unico.

Quindi la Romagna ha una strada segnata: vini in purezza e autoctoni.
Il riconoscimento identitario parte dalla biodiversità, non c’è dubbio. Inoltre si è riusciti - a dispetto della nostra litigiosità - a convergere in un unico Consorzio territoriale, caso quasi unico in Italia. Tieni poi conto che in Romagna, dove la cooperazione è forte, è stato possibile conservare questa biodiversità e non inseguire certe sirene come altrove. E quindi oggi possiamo capire su cosa scommettere, perché il mercato non è mai statico, semmai ciclico, più che fluido.
Ora mi devi indicare 5 punti programmatici per la tua presidenza. Vai col primo.
Vorrei che i soci produttori imparassero che essere insieme nella diversità li rende più forti: tante storie personali ne raccontano una più ampia di territorio.

Secondo.
“La Romagna è il segreto meglio custodito d’Italia” diceva un famoso importatore. Noi abbiamo condiviso il mare, ma l’interno è ancora sconosciuto, quindi vorrei far conoscere di più l’insieme del territorio, a cominciare dall’entroterra. Non si impara a riconoscere i vini senza parlare con i produttori e senza impolverarsi le scarpe.

Terzo.
Vorrei riuscire a comunicare meglio ai consumatori le Sottozone del Romagna Sangiovese. L'immenso patrimonio di un vitigno che, per sua caratteristica, si esprime in modo diverso rispetto a suolo, clima, cultura enologica e naturalmente progetto aziendale.

Quarto.
Vorrei essere al fianco dei ristoratori, dopo tutte le difficoltà che hanno dovuto affrontare con la pandemia e aiutarci a vicenda a far conoscere il vino di Romagna almeno quanto il cibo di Romagna. Ma ci sono segnali incoraggianti dai vari locali, che hanno la carta dei vini romagnoli. Lo dico perché non puoi diventare famoso all’estero se non sei riconosciuto in casa.

Quinto.
La politica dovrebbe veicolare il vino con i miti della Romagna, che sono tanti, soprattutto nel mondo dello sport, della musica, della gastronomia, dove sarebbe auspicabile che emergesse sempre, nelle cene e nei saluti, un vino della Romagna.

Quindi a Bonaccini che vini gli dedichi?
Un’Albana, perché è un tipo tosto con le idee chiare.

La nostra chiacchierata finisce qui, con un cartolina (che è l’iniziativa lanciata per l’estate per raccontare i territori della Romagna e le proprie ricchezze www.cartolinedallaromagna.it) da spedire a… Vinitaly.
Sì, certo, il Vinitaly ha un’importanza notevole e dispiace che per due anni non si svolga. Ma questa dovrebbe anche essere l’occasione per ripensarlo, nella direzione di meno fiera e più B2B. È fondamentale avere una fiera in Italia perché non puoi delegare solo all’estero questo tipo di manifestazioni. Sarebbe un grave errore e non lo permetteremo.

Il nostro viaggio in Romagna continua con la pubblicazione in tre puntate differenti dei nostri assaggi avvenuti nei giorni scorsi. Una guida fondamentale per cominciare a guardare la Romagna sotto un’altra luce.
Inizia il viaggio per un’esperienza favolosa.

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