Nel mondo del vino ci si dà sempre del tu. E non sembri irriverente questa regola “veronelliana” nei riguardi di un Presidente, che è un figura istituzionale. Ma se poi il presidente in questione è quello del Consorzio della Barbera d’Asti e dei vini del Monferrato, il rapporto si fa ancora più stretto, avendo nel mio Dna proprio la vigna, di barbera, sulla strada che da Masio si inoltra a Rocchetta Tanaro, in località Mogliotti.
Una settimana fa ero stato nella sede di Costigliole d’Asti, dentro al castello, che in questo momento è un cantiere perché sta per nascere una delle più belle sedi di Consorzio dedicato ai vini, con tanto di ristorante, sala convegni e sale degustazione, oltre a vari spazi di accoglienza. Obiettivo inaugurazione entro la fine dell’anno.
Filippo Mobrici, agronomo e responsabile viticolo delle Cantine Bersano di Nizza Monferrato, ha 54 anni ed è al suo terzo mandato di presidenza. Sposato, due figli, Mobrici è esperto degustatore e ha partecipato a commissioni di certificazione. Uomo del vino a tutto tondo, è anche Presidente del Gal Terre Astigiane nelle Colline Patrimonio dell’Umanità e Vicepresidente di Piemonte Land of Wine, organismo che raggruppa i quattordici consorzi vinicoli piemontesi riconosciuti dal Ministero dell’Agricoltura.
Inizio questo dialogo con una battuta che ho sentito fare, ossia che la storia del Consorzio del Barbera d’Asti ha un prima e avrà un dopo Mobrici. Come la interpreti questa boutade?
Be' mi fa piacere. Naturalmente significa che forse abbiamo fatto cose importanti in questi anni, ma preferisco parlare al plurale perché i risultati veri sono sempre il frutto di un gioco di squadra.
Quale direzione hai dato al Consorzio?
Di non essere solo un ente di “tutela”, o meglio, abbiamo voluto declinare la parola tutela anche attraverso la valorizzazione e la promozione. Che è la bestia nera dei produttori agricoli piemontesi che ritengono ancora la promozione un fattore marginale della propria attività. Infatti c’è voluto coraggio a scommettere su quella direzione.
E in termini numerici cosa è successo?
Quando sono arrivato alla presidenza i soci erano 165, a fine 2020 ne contavamo 400. Quindi significa che la direzione è stata quella giusta e questo è stato riconosciuto. Dirò di più: hanno riconosciuto in molti uno strumento prezioso anche a livello di rappresentanza sui mercati internazionali.
Ma hanno cambiato pelle anche i produttori?
Sì certo, dal 2000 in poi imbottigliavano solo le grandi aziende; oggi invece sono aumentate le aziende imbottigliatrici e questo è un segnale non da poco, che parla di un aumento generalizzato della qualità.
Ma sai una cosa che mi colpisce, anno dopo anno: trovare tanti giovani che si cimentano col vino e magari non sono figli di viticoltori…
Questa è la più grande soddisfazione: aver creato la speranza in tanti giovani che potevano scommettere sulle cascine, magari abbandonate, dei loro nonni. È una cosa fantastica, che è strettamente legata alla vitalità che abbiamo dato alla nostra Docg, se aggiungiamo anche l’arrivo di stranieri che ristrutturano immobili rurali e magari si danno al vino.
Questa si può definire un’azione politico-sociale del Consorzio.
È il progetto di custodire, che vede man mano rinascere i paesi, i territori.
Ma oggi si può dire che la Barbera è a tutti gli effetti un vino internazionale?
Lo è anche per il suo adattamento speciale a tante cucine del mondo.
La strada, del resto è quella che hanno tracciato Bersano fra i primi, poi Giacomo Bologna e Michele Chiarlo, che sono due personaggi che ho “visto da vicino” nel loro sforzo di conquistare i mercati del mondo…
Questi sono i padri nobili, ma i nomi sarebbero tanti e penso anche al ruolo che hanno avuto le donne, una su tutte Mariuccia Borio…
Già Mariuccia, come Chiarlo, Braida, ma anche Coppo e altri hanno ad esempio scommesso sulla versatilità della Barbera, producendo diverse referenze. Anche questo è un fenomeno che ha radici in una qualità riconosciuta. Ma diversificare un prodotto che ha il medesimo nome è un pregio o un difetto?
Poteva essere un limite all’inizio, perché non sembrava chiaro quale fosse l’identità della Barbera, ma poi abbiamo dovuto riconoscere che avevano ragione loro e il Nizza, che è entrato nel palmares con una denominazione legata a una località, in un certo senso ha semplificato le cose.
Strano, quando 20 anni fa uscì il Nizza pensai che difficilmente si sarebbe affermato, perché quel tipo di denominazione ci trovava in ritardo, e invece…
Invece c’è stata una convinzione vera da parte delle aziende che hanno creduto al progetto e c’è stata una corretta comunicazione che alla fine ha dato i suoi frutti. Se pensiamo che un tempo la Barbera era la Cenerentola dei vini piemontesi, oggi ha un’altra considerazione e il Nizza è andato affermando anche la nobile longevità del vino.
C’è poi un fenomeno strano, per cui ci sono aziende astigiane che investono nel Barolo (lo fece Bersano, c’è Chiarlo a Cerequio, ma recentemente Pico Maccario ha preso una porzione a Cannubi) e questo si può capire, ma anche aziende di Langa che investono nel Nizza o nella Barbera d’Asti.
Infatti, hanno visto un’opportunità dal punto di vista imprenditoriale, anche in termini di acquisizione di vigne. È un segnale questa scommessa che hanno voluto fare sul nostro territorio che è come un riconoscimento sul campo.
Certo, ma se paragoniamo le Langhe all’Astigiano o al Monferrato in generale, là oggi si parla di cru, mentre qui c’è solo la distinzione del Nizza: è un po’ poco non trovi?
Lo so bene che questo non rende ragione della realtà produttiva del mondo della Barbera. E infatti nel 2016 abbiamo iniziato con il progetto Barbera 2.0 per caratterizzare il territorio da un punto di vista scientifico e non solo cartografico.
Siamo partiti da un’analisi del suolo fatta dalla Regione a fine anni 90, con dati bioclimatici e chimico-fisico dei vigneti. E abbiamo individuato 13 aree. Il lavoro verrà pubblicato quest’anno ed è stato seguito dal professor Gerbi.
È un progetto analogo a quello che hanno appena varato in Romagna, o che vorrebbero fare nel Chianti, tenendo conto che sangiovese e barbera hanno quantità diffuse abbastanza simili.
È il concetto delle macro aree e a cascata si può arrivare ai Comuni e persino ai cru.
Posso fare un esempio per vedere se ho capito? Macro area è Val Tiglione; Comune Cortiglione; Cru Briccofiore.
È corretto, però attenzione, noi che rappresentiamo 167 comuni sparsi fra Alessandria (51) e Asti, non vogliamo enfatizzare eccessivamente il cru che può anche creare una certa confusione. Nella Langhe sono oltre 100 e va bene, ma l’80% ai più dicono poco, forse. Il cru viaggia se ci sono aziende che ci credono e ne rendono ragione. Così come le macro aree: possono esistere laddove si è sviluppata, non a caso, una massa critica di produttori.
Qual è lo stato di salute del mondo vitivinicolo da te rappresentato dopo questo periodo buio?
Diciamo che in questi due anni tutto il Monferrato in qualche modo ha tenuto ed ha scoperto nuovi mercati. Molti hanno potenziato l’e-commerce, altri sono entrati nella Gdo, ma alla fine quella che è mancata è la remunerazione del prodotto.
Tenuta sulla quantità, ma minore valore aggiunto giusto?
Sì, perché in quantità si sono visti anche incrementi, ma qualche posizione sui prezzi l’abbiamo persa. Ora dobbiamo riprenderci il mercato.
E come?
Diversificare i canali vuol dire anche scoprire il vicino di casa, sembra banale dirlo, ma il consumatore finale che era chiuso in casa e che è stato raggiunto in qualche modo da una cantina ha saldato un legame. E quando dico vicino di casa parlo di Lombardia, Liguria, insomma delle aree tradizionalmente legate al Piemonte.
Questa coscienza è un’eredità positiva che mutiamo dal Covid?
Ma certo, come lo è l’enoturismo, ossia il consumatore finale che deve essere considerato nell’ambito di una relazione e quindi una risorsa. Allora capisci che se rompi la rigida linea dell’intermediario e torni a raccontare il tuo vino, il valore aggiunto pian piano lo recuperi?
Alla stessa domanda il tuo collega delle Marche, Alberto Mazzoni, ha risposto anche citando il fenomeno dei bag in box. Tu che ne pensi?
Io penso che ogni canale va valutato per quello che è e non va mai visto come un di meno. Per il Piemonte Barbera questo strumento va bene e viene persino venduto in alcuni mercati che ci stanno dando soddisfazioni. Se pensi che un tempo non molto lontano si vendevano le damigiane… Ora se vogliamo riprenderci il mercato che viaggia anche con la consegna della spesa a domicilio, può essere che il bag in box sia lo strumento più adeguato.
Facciamo un’analisi degli altri vini, al netto della Barbera. Che mi dici del Freisa?
Con la barbera e il nebbiolo è il più grande vitigno che abbiamo in Piemonte. Ma forse il fatto di averlo proposto senza una precisa identità lo ha penalizzato e oggi fa fatica a imporsi. È un peccato.
Il Dolcetto d’Asti ha ancora ragione di esistere?
Non saprei, è molto debole a fronte di un nome equivoco e di ben 13 Doc che portano quel vino. Il suo futuro è piuttosto incerto.
Il Grignolino d’Asti?
Il nobile decaduto. Uno dei più grandi vini che fino a trent’anni fa nelle Langhe dovevano avere, ma oggi ci credono in pochi, qui nell’Astigiano, e all’estero non è facile farlo conoscere.
Che mi dici del Ruché?
Una scommessa vinta. È una delle cose più belle che poteva capitare al Monferrato, soprattutto in un’area che stava perdendo terreno. Grazie a un parroco che ha dato il là, si sono accodati alcuni produttori convinti, che invece lo hanno fatto conoscere con grande soddisfazione all’estero. Ed è un vino anche ben remunerato. Insieme al Nizza posso considerarlo una riuscita.
Ma perché non si scommette invece su un aromatico semplice e fragrante come la Malvasia rossa?
La malvasia di Schierano è un grandissimo vitigno anche lui. Viene apprezzato negli Usa, ma sono davvero pochissime le aziende che ci scommettono.
E l’Albugnano?
Una scommessa a metà strada, di un enclave che annovera 11 produttori. Non c’è massa critica perché molti produttori hanno riserve nel piantare nebbiolo, ma può essere un errore pensare che questo terroir non abbia nulla da dire con questo vitigno difficile.
Bene, ora ti chiedo (pur avendo la mia risposta in tasca) quale sarebbe secondo te il Bianco del Monferrato.
Io vedo risultati eccellenti con il viognier, mentre ho poche speranza con lo chardonnay e anche col sauvignon.
Perché?
Ma perché sono vini che hanno sempre un altrove, dove il paragone è vincente, a priori, magari senza averli assaggiati; ma lo senti il pensiero che in fondo è “Cosa vuoi che sia un Sauvignon piemontese".
Questo può valore anche per il viognier…
E infatti io dico che il Bianco del Monferrato è il cortese. Che è un vitigno sottovalutato, che veniva considerato neutro e poi dà l’idea che sia ovunque e comunque sempre meno del Gavi, che ha fatto un’operazione storica importante e ben impostata su questo vitigno.
Magari basterebbe cambiare nome e abbandonare il legame con il vitigno…
È l’operazione che abbiano fatto con il Marengo, che può rappresentare la bollicina del cortese; mentre per il prodotto fermo il nome potrebbe essere Alto Monferrato no? Ma la risposta che avevi in tasca tu qual è?
Si chiama “baratuciat”, un vitigno che ha parentele col sauvignon e che cinque produttori nel Monferrato stanno dimostrando che può rappresentare un fenomeno come è stato il timorasso nel Tortonese. Poi è vero che recentemente ho fatto una verticale di Cortese allocato a Vignale Monferrato, spettacolare, mentre una nuova cantina di Isola d’Asti mi ha mostrato recentemente anche la versatilità di questo vitigno.
Siamo quasi allineati, io l’ho assaggiato il baratuciat e se scattasse un interesse maggiore, magari da parte di aziende disposte a investirci, come accadde nel Ruché, forse quello che pronostichi si può avverare.
Concludiamo questa chiacchierata con la domanda che ho fatto in tutti i dialoghi del vino (questo è il n. 10). Vi manca il Vinitaly?
Sì, manca la grande manifestazione che era stata due anni fa, perché sono mancate tante di quelle occasioni di incontro. Manca soprattutto quel Vinitaly lì. Poi stiamo vivendo un momento riflessivo, per cui nella fase di ripartenza le aziende hanno anche capito che certe cose si possono anche non fare se sulla carta appaiono superflue. Oggi c’è bisogno di tanta concretezza per ripartire, facendo tesoro di un periodo di autentica resistenza, che davvero potrebbe farci trovare tutti più forti di prima, se ognuno gioca fino in fondo la sua parte.