Buongiorno Fausto, ho notato che ti piace definirti oste e non ristoratore, vuoi spiegarmi il motivo?
Molti anni fa, quando ero un trentenne di belle speranze, credo di aver fatto scrivere sulla carta di identità, alla voce lavoro: imprenditore. Me ne vergogno ancor oggi. Ci ha pensato la vita, in decenni di capitomboli, a farmi capire che non sarei mai stato capace di esserlo, né sarei mai stato in grado di essere un ristoratore. Non sapendo bene dove collocarmi, al rinnovo del documento di identità, quando mi chiesero: “Professione?” borbottai “Oste”.
E dove sta la differenza?
Ho scritto un sintetico trattato su questo. L’ho chiamato:
Impercettibili differenze tra oste e ristoratore:
Il Ristoratore accoglie il cliente all’ingresso.
L’Oste si frappone tra il cliente e l’ingresso.
Il Ristoratore ti porta “una piccola entratina”.
L’Oste ti dice: “Questa è quella che nei ristoranti chiamano entratina, ma qui ci si ostina a chiamarla cazzatina.”
Il Ristoratore ti lascia la Carta dei vini.
L’Oste ti chiede se vuoi bianco o rosso.
Nel Menù del ristoratore ogni piatto si presenta con il suo articolo determinativo: IL Risotto, LA Tagliata, e, almeno, UN Trionfo di qualche Orata o Branzino.
Il Menù dell’oste è trotzkista e non prevede neanche l’uso di maiuscole, sporche capitaliste controrivoluzionarie.
Il Ristoratore, nel levare il piatto, domanda cortesemente “Posso?”.
L’Oste, nel ghermire la fondina, ringhia: “Hai finito?”
Il Ristoratore ti cambia il bicchiere alla seconda bottiglia.
L’Oste ti versa un dito di vino e ti ordina di avvinare.
Al momento del conto il Ristoratore non ti fa andare via senza “l’ultima coccola”, un bon bon di cioccolato guatemalteco con coulis di fragole.
L’Oste ti porta uno scontrino stropicciato e, alla parola coccola, cade stecchito come uno scarafaggio annegato nella coulis di Kafka.
Mi avevano avvertito del tuo umorismo bislacco. Ma, seriamente, come nasce La nuova cuciniera genovese?
Come tutte le storie, nasce prima di nascere, da un incontro tra me e Giacomo, cuoco e socio. Fu un avvenimento casuale, come quasi ogni avvenimento della mia vita. Io cercavo un cuoco. Lui, trasferitosi a Genova per amore, cercava una cucina. Io vantavo una Taverna nel vicolo più brutto del centro storico. Lui, un curriculum internazionale di ristoranti eleganti. Gli opposti si attraggono, si sa. Scoprimmo di avere in comune la stessa idea suicida di offrire alta qualità al minor prezzo possibile, di coniugare la tradizione con una ricerca sperimentale in nuovi piatti cucinati con antichi ingredienti. Direi una felice intuizione per sconcertare tutti i clienti.
Sempre casualmente abbiamo trovato una nuova ubicazione, abbiamo sepolto il vecchio locale, la Taverna di Colombo sotto un mausoleo di bottiglie svuotate in notti svanite, e abbiamo ricominciato da capo. Sempre con le stesse idee.
Il nome è un prestito ad un volume di ricette: La antica cuciniera genovese.
Procediamo nel segno di una continuità anarchica e filologica al contempo.
I clienti, quelli di sempre, come sempre continuano a scuotere il capo.
Intanto vi siete guadagnati un prestigioso riconoscimento sulla nostra Guida. Come lo spieghi?
Una organizzazione da orefice, una compartimentazione di ruoli millimetrica, una precisione elvetica. Giacomo organizza il lavoro in cucina, crea piatti, sperimenta tecniche, elabora, assembla. Ma, soprattutto, elide. Un grande cuoco, più che aggiungere, lavora per sottrazione, in modo che ogni singolo ingrediente sia parte del tutto ma con una sua voce riconoscibile al pubblico. La semplicità è estremamente complessa.
Quando tutto è perfettamente disposto e allineato entro in scena io, a portare i piatti al tavolo sbagliato, ad inciamparmi su per la scala, a dimenticarli nel calapranzi.
Vorresti dirmi che il vostro ristorante è un buon porto nonostante la tua presenza?
Credo che fosse Konrad Lorenz a paragonare gli scienziati a goffi coleotteri. Ottusi, sgraziati, testardi, maldestri. Però, a volte, spiegano ali di filigrana. E volano.
Mi sembra calzante con la mia categoria. Certe sere, quando tutto fa male, entri in quel certo locale per un piatto e un bicchiere. E finisce che ti trovi a parlare fino alle tre del mattino con qualcuno che neanche conosci, ma lui sa chi sei tu, perché ne ha visti migliaia con il giorno sbagliato sedersi per una piccola sosta dal vivere. E cercherà di confortarti con una pasta e del vino, perché quello sa fare. Certo non ti salva la vita. Però aiuta.
Quanto conta l’anima in un ristorante?
Questa è una gran bella e maledetta domanda!
C’è una storiella Zen che parla di un musicista e il suo amico. Quando il musicista suona l’amico chiude gli occhi e ascolta, comprendendo ogni nota. Un giorno l’amico muore e il musicista taglia le corde del suo strumento. Senza l’amico la sua musica non ha più senso.
Nel nostro campo si lavora cercando una impronta, una voce precisa che dica chi siamo. Qualcuno comprende, non tutti, in questo momento massificato. Forse è sempre stato così. Forse lo sarà sempre. L’imprenditore, casomai, modifica le strategie e ristruttura l’azienda in un All You Can Eat. L’oste e il cuoco tagliano le corde dei loro strumenti. Noi dipendiamo non solo dalla nostra anima, ma anche da quella di chi entra a cenare.
Quindi sei pessimista per il futuro della categoria?
La nostra è una categoria troppo evasiva, astratta. Comprende e include persone che vanno da Briatore a me. Ottimismo e pessimismo dipendono dal punto di vista.
Io, dal canto mio, spesso rincaso con molto vino in corpo, raccontandomi un’altra storiella Zen. Quella del contadino inseguito da un orso. Arrivato ad un precipizio non può far altro che gettarsi, aggrappandosi ad un esile alberello a metà del dirupo. Sopra di lui l’orso inferocito. Sotto, una tigre affamata. L’alberello reggerà ancora per poco il suo peso. Il contadino vede, vicino, una piantina di fragole. Con una mano spicca il frutto. L’albero cede. La fragola è dolcissima.
Questa intervista è tutta merito di Fausto; è la fedele trascrizione di quello che mi ha detto; lui parla proprio così, con in più una cadenza genovese che purtroppo nella scrittura non ho potuto imitare.
Del suo locale avevamo già scritto (
link), è un’esperienza vera e, se lo trovate di luna buona, potrebbe diventare indimenticabile.
Grazie a Genova la magica, che sa come allevare la fantasia e la creatività di tanti spiriti liberi.
LA NUOVA CUCINIERA GENOVESE
Vico Superiore del Ferro, 13
GENOVA
tel. 010 8688720