Mercoledì mattina, sono nel traffico di Milano, ignaro che qualche ora dopo, nella stessa matrigna città che mi ha dato i natali, qualcuno mi ruberà l’auto mentre sono a provare l’ennesimo ristorante per la mia guida. E mi arriva una telefonata inattesa che fa dire a mia moglie: “Ma chi era che ti si è illuminato il viso come un bambino?”.
Era Mario Calabresi, già mio direttore alla Stampa, amico prezioso come ce ne sono pochi, che mi annunciava tre cose importanti: l’uscita del suo libro “La mattina dopo” (strade blu Mondadori), la sua prima bottiglia di Arneis, dopo l’acquisto di una vigna a Montà d’Alba, dove un suo avo, Alberto Cavadore, faceva un Arneis che venne addirittura premiato a Parigi agli inizi del Novecento e infine un vino che abbiamo convinto a salvare, promettendo l’acquisto dell’intera produzione: la Freisa di Almondo, altro storico produttore di Montà, nel Roero.
“Dove ti lascio queste tre cose?" mi chiede Mario, disposto a venire anche ad Alessandria, nel caso fossi stato lì. “Lasciale a tua mamma, dopodomani passo a prendere tutto” (poi è passato Andrea, perché ero sprovvisto di auto. Accidenti: mi avrebbe fatto piacere fare una sorpresa a Gemma, donna solare, vera, che poi scopro ritorna spesso in questo libro bellissimo). Un libro dove Mario si mette a nudo, senza mediazioni, come aveva fatto in quell’altro mirabile, “Spingendo la notte più in là”, che lessi tutto d’un fiato durante un’estate in Sicilia, ripercorrendo quegli anni violenti quando, adolescente, mi affacciavo nella Milano delle contestazioni.
Sfoglio il libro, ne leggo alcuni pezzi, dove lui ripercorre la storia dei nonni, che gli sono stati genitori quando a 2 anni e mezzo rimase senza il padre, il commissario Calabresi, ucciso in un agguato sotto casa. E anche quella volta ci fu “una mattina dopo” che era soprattutto quella di Gemma, decisa fin dagli inizi a non vivere nel ricatto del rancore e a educare i suoi figli così: nella gioia, perché la vita è per quello; nel rispetto, perché ogni vita è un valore.
Gemma io la conobbi la prima volta quando diedero a Mario il Premio È giornalismo della famiglia Aneri. Mario era salito sul palco e aveva ringraziato perché quel premio lo onorava soprattutto per i suoi fondatori: “Indro Montanelli, che ho conosciuto; Enzo Biagi, che pure ho conosciuto… e Giorgio Bocca, che conosco oggi”. L’ultimo era stato uno dei firmatari di un manifesto che aveva in qualche modo messo sul banco d’accusa suo padre, prima dell’epilogo tragico. Ma Mario è sceso sorridente dal palco e gli ha stretto la mano. Io guardavo la scena e mi domandavo: “Ma cosa ci stanno a fare i fotografi?”. Quella era la foto che doveva passare, ma nessuno ha capito. Gemma invece sì. E sorrideva, perché quella era l’educazione che aveva dato ai suoi figli: il rancore alle spalle. Certo per Mario Calabresi non è stato facile risvegliarsi la mattina dopo e non essere più il direttore di Repubblica. Così ha deciso che non era il rammarico di una cosa perduta ciò che doveva determinare i suoi anni migliori, questi. E si è messo a scrivere un libro andando a cercare storie e persone che il giorno dopo, obtorto collo, hanno dovuto ricominciare: una disgrazia, un evento inaspettato, un lutto, insomma qualcosa che ha sconvolto la vita. Che da quel giorno non sarebbe più stata la stessa.
Però… quanta forza c’è in ogni uomo e donna, che decidono di ricominciare. Calabresi poi scrive di alcune situazioni inevitabili, per cui ovunque lui andasse la domanda era sempre la stessa: “Cosa farai adesso?”. “Scrivo un libro”. Era la sua risposta, che diede anche a me. Ma poi sarebbe tornato anche a Montà, a seguire la sua vigna di arneis, perché il potere della terra è sempre qualcosa che ti riporta coi piedi ben saldi. E poi si è nutrito dei rapporti veri, che quando scendi dal piedistallo restano pochi. Ma sono grandi. La sua bella famiglia, i suoi fratelli, sua mamma, e poi la famiglia Almondo, vignaioli da generazioni. Appena arrivò alla Stampa mi venne a cercare: “Paolo mi porti a vedere quello che vedi tu?”. Ci trovavamo così verso l’ora di pranzo sotto il giornale, e avevamo due ore di tempo. Per due volte siamo stati nel Roero, a incontrare famiglie del vino: dai Negro, mentre scendeva la neve a Torino, ma Mario non avrebbe rinunciato per nessuna ragione al mondo. E il capofamiglia a tavola, con la moglie e i suoi figli, che ha fatto il segno della croce prima di iniziare, perché “A casa nostra si fa così”.
La volta dopo siamo andati da Domenico Almondo e Mario ha trovato le sue radici e il suo vino, l’Arneis Bricco delle Ciliegie, superbo. Una volta siamo stati dal giovane Aldo Bongiovanni, a Mondovì, che invece faceva il mugnaio. E Mario è rimasto talmente colpito che ne ha scritto un capitolo intero del suo penultimo libro: "Non temete per noi, la nostra vita sarà meravigliosa”.
Per me, trovarmi un direttore di giornale così, che entrava nei particolari di ogni iniziativa, è stato un lusso professionale, dove ho imparato moltissimo. Il giornalismo era questo: uscire, incontrare, capire le storie umane. Persino quando c’era da fare l’inserto per il Vinitaly, che di solito è un particolare per raccogliere un po’ di pubblicità, lui convocava una riunione a Torino e si entrava nel merito di un progetto che doveva essere unico.
Però, scrive nel libro l’autore, quando ti trovi la mattina dopo, il telefono smette di squillare. Ma una telefonata invece gli è arrivata. Era di Angelo Gaja, che lo invitava a passare un pomeriggio con lui. E qui mi è venuto in mente che le persone vere hanno un destino meraviglioso: incontrarsi. Alla faccia di dove ti porta il mondo, la cui misura è sempre il successo. In 30 e passa anni ne ho visti tanti di direttori di giornale. Mi ricordo Giulio Anselmi all’Espresso, che mi rispettò fino in fondo, quando dovetti far le valigie per un cambio di direzione alle guide del gruppo. Poi lo ritrovai alla Stampa e ancora oggi ogni volta che mi incontra mi saluta sempre con tanto affetto. Così Gianni Riotta, che di fatto mi lanciò. Pierluigi Magnaschi invece telefonava a ogni cambio di direzione del Tempo di Roma per dire: “Mi raccomando tenete Massobrio”. E io manco lo conoscevo. Poi ci siano incontrati quando lui è andato a Italia Oggi. Il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, invece mi ha dato un riconoscimento sul campo: “La tua rubrica la mettiamo quando è aperto il Palazzo, perché tu sei capace di incalzare la politica”. Mica male per uno che ha studiato Scienze Politiche e che per colpa di una tesi di laurea in Statistica Economica sul mercato del vino in Italia è rimasto invischiato (vivaddio) nell’enogastronomia. E poi Mario, una persona normale, alla mano, uno per bene, pieno di curiosità, autentico. Scrivo questo perché quando uno pensa a un direttore di giornale, ha in mente persone irraggiungibili, quasi dei marziani. E invece, talvolta, ci sono cuori intelligenti che hanno una spinta affettiva scevra da preconcetti e ideologie.
Quest’anno mi sono capitati due episodi ravvicinati: una sera a Roma e un mezzodì a Pescara, sempre a tavola. Nel primo caso, al mio tavolo da otto persone c’era una giornalista di Repubblica di una certa età, che appena ha preso la parola ha iniziato a criticare il suo ex direttore. A quel punto l’ho bloccata e le ho detto: “Guarda, Mario Calabresi è stato il miglior direttore che ho avuto, ma siccome è anche un mio amico, a scanso di equivoci, ti pregherei di non andare avanti”. Ed è finita lì. A Pescara invece mi sono trovato di fronte una giovane giornalista di Repubblica e quando ha saputo che scrivevo per la Stampa, mi ha detto: “Calabresi ci ha fatto fare un salto, soprattutto sulle nuove tecnologie e sulla freschezza della comunicazione. È stato un grande”. E lì, nel mio piccolo, ho capito che forse c’è stato un problema di generazioni, di arroccamenti baronali, di penne presuntuose che non hanno voluto farsi guidare in una fase di cambiamento per il Paese, dove c’era e c’è ancora bisogno di quel rispetto per l’altro.
Ora mi metterò a leggere il libro tutto d’un fiato, mentre i giornali, Repubblica e La Stampa per ora, lo hanno recensito anticipando il capitolo più scottante, l’ultimo, che è l’incontro voluto fra Calabresi e Giorgio Pietrostefani, condannato per aver organizzato l’omicidio di suo padre e latitante a Parigi. Un percorso di pacificazione interiore, come lo ha chiamato Mario. “Così sono andato a incontrare quell’uomo che non aveva più nulla dei suoi vent’anni. Dovevo farlo. Adesso il mio giorno dopo era finito davvero”.