È stata la nostra prima conquista. Eravamo piccoli. Un dito inzuppato di nascosto, un goccio concesso dai grandi, nei giorni di festa, quando la tavola è apparecchiata di tutto punto, i parenti riuniti. Perché il Moscato è il vino delle feste, il vino della famiglia. Al primo assaggio il nostro giovane palato ne ha apprezzato la sua peculiare aromaticità. Non sapevamo definirli, tutti i sui aromi, ma ci piaceva la sua dolcezza, che è come una coccola, e le sue bollicine, che ci grattavano il palato.
Crescendo, abbiamo imparato i termini dei grandi. Perlage, metodo Martinotti, persistenza retrolfattiva. E a riconoscere dove comincia la pesca e finisce l'albicocca, dove il glicine traslucida nel tiglio, dove il miele s'innesta di fiori di arancio. Il nostro palato è evoluto. Più che la dolcezza – che è un imprinting che ci collega ai nostri archetipi d'infanzia – siamo andati alla ricerca di quei Moscato d'Asti innervati di note vegetali: salvia e rosmarino su tutte. Un balcone di erbe aromatiche al sole d'agosto, nel bicchiere della domenica.
Ma quel che non è cambiata è la nostra passione per questo vino che è compagno di vita, simbolo di festa. E allora, tagliata la fetta di panettone, spolverato di zucchero a velo il pandoro, spaccato col coltello un bel pezzo di torrone, alziamo le coppe, e brindiamo. È il nostro legame col passato, e il miglior auspicio per il futuro.