È solo l’ultima polemica in ordine di tempo che ha visto protagonisti i cuochi e i depositari di qualsivoglia tradizione (dal Comune di Amatrice all’Accademia di Teglio). L’antefatto dell’ultima polemica è la ricetta dei pizzoccheri dello chef alessandrino ma "con ricordi valtellinesi”, Andrea Ribaldone: insomma ha messo l’olio e la fonduta nei pizzoccheri.
Pronta la reazione dell’Accademia di riferimento: “Li chiami in un altro modo ma non parli dei pizzoccheri”.
Intervistato sulla Stampa Ribaldone non è stato tenero con chi lo ha accusato di “fare un piatto da brividi”: “La ricetta è una bugia e non volerla modificare è campanilistico. Se c'è chi ha paura di confrontarsi io sono per la modernità”. Abbiamo raggiunto telefonicamente lo chef (in procinto di tornare alla Prova del cuoco) e la sua difesa, articolata, tocca punti ben più profondi del leso pizzocchero. “Parlare di attentato all’identità è una sciocchezza: parliamo di cucina, non di un’operazione a cuore aperto (ma la cucina - si sa - è questione di cuore). E poi - e qui la difesa è ineccepibile - chi ha codificato quella tradizione? La cucina italiana, a differenza di quella francese è molto poco codificata, è impossibile dire cosa è giusto o cosa è sbagliato”.
Ma conta anche il fattore pubblico: “Quando parlo (in questo caso dalla Prova del cuoco) mi rivolgo a un pubblico nazionale, alla signora siciliana che magari vuol farsi i pizzoccheri e io le suggerisco una versione più adatta ai suoi gusti”. Lo farei anche con la polenta (ora aspettiamoci la rivolta dell’Accademia della polenta concia!). Con alcuni accorgimenti possono diventare un piatto estivo”.
“Attualizzare - e Ribaldone passa all’attacco - è un dovere altrimenti basterebbe aprire il Carnacina e la storia finisce lì. Invece è nel diritto di un cuoco costruire la tradizione che ci sarà tra trentanni”.
Il foodteller Federico Francesco Ferrero concorda sulla impossibilità di codificare la cucina italiana: “La verità non è a Bruxelles, nel brevetto di un’accademia, in un disciplinare ma è varia quante sono le case italiane”. Boccia però lo “ius cuochi” invocato da Ribaldone: “I cuochi hanno lo stesso diritto di modificare le ricette tradizionali quanto ne ha la casalinga italiana”. È sbagliato rivisitare la tradizione in maniera modernista, è inutile rifare la amatriciana con una spuma. È diritto - e dovere - dell’alta cucina fare piatti completamente nuovi”.
E la vituperata tradizione che fine fa? È individuata dai suo confini antropologici, gli stessi che ci dicono - sostiene Ferrero - che in Piemonte la bagna cauda sarà stata fatta per la maggior parte con il burro perché in Val Maira dove avevano l’olio?” (No Ferrero non torniamo sulla bagnacaoda: l'olio di noci c'era ovunque). Oppure come dice Ribaldone “finisce con i limiti del buono e dell’attuale” (scrivi attuale leggi leggerezza, ma non lo diciamo a Ferrero che sul concetto di leggerezza ha scritto un intero libro).
Allora perché tutte queste polemiche? La ragione (quella plausibile) si intravede dalle parole di Ribaldone: “Mi hanno già chiamato gli uffici stampa di alcuni cuochi celebri per fare fronte comune” (e possiamo immaginare che anche tra Accademie e Confraternite ci sia un bel fermento). Tra dibattito e polemica ad hoc il limite è sottile almeno quanto quello del significato di tradizione.
Nel prossimo post il pensiero dei delegati di Papillon anch'essi divisi.