Divertimento, gusto, accoglienza. Gioia. Queste le parole che mi ripetevo in auto al ritorno dal LeoneFelice (nomen omen) dell’Albereta che da un paio di mesi ha cambiato formula, entrando direttamente nelle nostre corde.
A dire il vero la cucina dell’Albereta non figurava nelle nostre guide dai tempi di Gualtiero Marchesi, se non con una breve menzione. Finché non è arrivato questo giovane cuoco, Fabio Abbattista: umile, bravo, campione delle materie prime. Eh sì, perché solo uno che conosce il prodotto può approvvigionarsi di carne da Guastavigna a Bergamasco, minuscolo macellaio in provincia di Alessandria, oppure scegliere questi due tipi di pasta: Vicidomini e Mancini, che sono il top del nostro Golosario.
Ma, consentitemi una digressione, chiedendo già venia se sarà ampia. Fabio ha scelto di lavorare all’Albereta arrivando subito dopo un grande, anzi il più grande della cucina italiana: Gualtiero Marchesi, che l'ha lasciato alla scadenza del contratto. Ma Fabio non ha mai pensato di sostituirlo. Lui piano piano, dai primi passi al grattacielo dell’Unico a Milano, da secondo di Fabione Baldassarre, è arrivato in punta di piedi ai locali fascinosi di questo relais dei Moretti, dando prova della sua originalità.
La prima volta che lo provai si meritò il faccino radioso a tutto tondo; la seconda mia fu quella con il nuovo bistrot accanto al ristorante... e registrai qualche défaillance sul servizio. Però lui bravo era bravo e forse dopo un rodaggio decisamente importante, in cuor suo, si aspettava la stella Michelin. Che crudelmente non è arrivata (crudelmente e ingiustamente). Forse non ce la facevano i critici francesi a premiare un simbolo delle bollicine italiane? Strano per un locale dove arriva gente da tutto il mondo. Dev’essere entrato in quella politica di contenimento del successo della cucina italiana, per cui la Rossa quest’anno ha preferito premiare i giovani, pensionando lentamente il nerbo di una generazione di cuochi che ha raggiunto la maturità e forse preoccupa. Detto questo mi fa pena, sinceramente, il peana continuo, anche delle istituzioni, alla cosiddetta “cucina stellata”, come se questa fosse l’unica patente che si riceve passando dalla dogana francese. Ma si può? In ogni caso, i francofoni della Michelin, se continuano su questo percorso, per cui – che so – Oldani non deve avere le due stelle, la Gignod di Clusaz la deve perdere e via di questo passo, perderanno mano a mano credibilità. Ancor più se cercano di mortificare un posto come l’Albereta, che deve avere proprio la pecca di fare dei buoni spumanti, altro non saprei.
Detto questo, nel board dell’Albereta, oltre a Vittorio Moretti, che è un uomo dalle spalle larghe di cui bisognerà scrivere un trattato, c’è un genio che si chiama Martino de Rosa, poco più che cinquantenne, che conosce tutti i migliori ristoranti del mondo. È un manager illuminato (uno coi contro...zzi, per capirci), che già aveva portato all’Albereta la pizza superba di Franco Pepe (oddio, un simbolo forte di italianità...), dimostrando che un luogo bellissimo è accessibile anche ai giovani (qualche centinaio ogni sera).
Due mesi fa ne ha combinata un’altra: ha rivoluzionato il locale, facendo un tutt’uno fra ristorante gourmet e bistrot, quindi allargando gli spazi, resi caldi da un arredamento comodo, non sussiegoso, ma elegante. Carta dei vini ancora più ampia e un menu dove uno dice: “Questa è la cucina italiana”.
Un piatto su tutti vi manderà fuori di testa: i mondeghili. Banalità direte voi. No invece: una grande tecnica applicata a un piatto della nostra tradizione, concreto, perfetto, senza elucubrazioni di spume e schiumette. E poi via tutti quegli orpelli di amuse bouche e pre dessert che talvolta appesantiscono le proprie scelte, per far spazio al cuoco protagonista.