Un odore profondo di conifere mi solleticò le narici e mi fece sobbalzare. Attraversando i boschi d’Asiago, eravamo arrivati ad una conca circondata da abeti, larici e pini mughi tra cui si scioglieva al sole una nebbiolina d’autunno. Mi fece venire il batticuore e le pupille si dilatarono. Il mio nome è Belka e sono un lupo. Ora vivo nei boschi piemontesi di latifoglie ma sono nato nella notte del solstizio d’inverno, in un’innevata foresta di conifere in Cadore, ancora più a nord di qui. I miei antenati giravano per i boschi canadesi, questo sentore di resina è rimasto impresso fortemente nei miei ricordi.
Un uomo grande che si chiama Gianni mi fissava dall’alto senza dire niente. Sia i suoi capelli che la barba sono candidi come la neve della notte in cui sono nato, le sopracciglia segnate sul suo volto, grosse e nere piuttosto intense. Con me la bocca è sempre rimasta chiusa, stretta. Di solito vado d’accordo con un uomo grande con la barba, ma questo qui non è un uomo facile. Al suo fianco c’era Lella alta quasi come Gianni, ma con lo sguardo più dolce. Provai a mordicchiare un po’ la sua mano. Motoko, la mia compagna, rimase imbarazzata e stava per sgridarmi invece Lella fece un piccolo verso di sorpresa e mi sorrise. Una donna forte come questa mi piace. Dai due asiaghesi veniva un odore di bosco simile al mio, avevano promesso a Claudio e Motoko, il mio branco, di accompagnarli in giro per l’Altopiano sulle tracce della Grande Guerra.
Prima di visitare le trincee Gianni ci volle portare in una casa di caccia dove c’era una cosa da far vedere a Motoko. Attorno alla casupola in legno centinaia di pecore radunate da un suo amico e, purtroppo, il cane pastore che le sorvegliava dall’alto come fosse lui il re di tutti gli animali. Entrò nella baita e tornò fuori con un libro degli ospiti e le chiese di leggergli una dedica lasciata in giapponese da un suo compaesano. Era di un giovane ragazzo che aveva alloggiato un po’ da loro, trattato come un figlio, ora in Giappone; speravano di trovare qualche suo pensiero intimo nel messaggio. Seguendo con un dito la scrittura del ragazzo, Motoko la traduceva parola per parola. Si trattava della sua soggezione e affetto di fronte alla natura di quel posto e nient’altro; i due signori quasi trattenevano il respiro per non lasciarsi scappare neanche una parola, io udivo solo i battiti del loro cuore. Con me l’uomo era rimasto sempre con la bocca chiusa ma, in fondo, anche lui non mi dispiaceva.
Al Monte Zebio vedemmo le trincee, sotto la splendida luce d’autunno erano estese per tutto l’Altipiano come una ferita non ancora rimarginata sulla terra dipinta di verde fertile. Tutti i miei sensi erano straordinariamente acuti. Anche senza aspettare le parole di Gianni io potevo immaginare: in questo posto sentivo, anche dopo un secolo, strisciare per terra le urla di migliaia e migliaia di soldati terrorizzati oltre ogni limite, costretti all’assalto di fronte alle armi puntate dei nemici in attesa. Il vento mi portava gli spasimi strazianti degli uomini spediti da Sassari, Catania, dal Piemonte o chissà da dove, capitati lì a morire senza la minima idea di cosa vi avrebbero trovato, né del motivo per cui dovevano cadere proprio qui, slanciandosi contro il muro di pietra per finire in mezzo ai nemici. Un pensiero fuggente al calore di casa, alla famiglia e poi la disperazione senza salvezza. Gianni invitò Motoko ad entrare in una trincea; anche una piccola come lei non aveva lo spazio per muoversi liberamente e, stando in piedi, la sua testa spuntava tutta scoperta senza difesa. Il muro a secco di protezione doveva essere davvero soffocante quando ci si mettevano al riparo tutti quei soldati. Sentivo l’inquietudine della mia amica e la sua tristezza mi agitava: così raspavo la terra con le zampe posteriori. Gianni di nuovo mi guardò fisso dall’alto ma questa volta era pacato e raddolcito.
A Motoko, che era uscita dalla trincea, l’uomo indicò un fiorellino di colore violetto, le disse solo il suo nome “genziana ciliata” e lo tenne su dritto fra le sue dita grosse. Motoko si affrettò a scattare la foto che tuttavia, pur provando diverse volte, rimaneva sfocata. Lui con molta pazienza lo tenne ancora sollevato, così nel frattempo il cuore di lei, che batteva irregolare, si calmò.
Dicono che da questa Grande Guerra sia passato un secolo, tempo che per me è inimmaginabile ma, ancora oggi, per gli esseri umani asiaghesi, il peso della vita di un uomo e il valore della loro terra si misura con questi 100 anni che sono passati. Proprio una terra così ha potuto far nascere un uomo come Gianni Rigoni Stern che ha progettato la “Transumanza della Pace”, un progetto umanitario che prevede di regalare delle vacche di razza Rendena per dare una prospettiva di futuro e di autonomia economica ai sopravvissuti di Srebrenica, Bosnia, dove ci fu un genocidio orribile non ancora risolto. Oggi, dopo 5 anni dalla donazione, ci va spesso per insegnare la pratica del buon allevamento bovino e sistemare, migliorare le strutture.
Mentre scendevamo a piedi dalla montagna, Lella invitò Claudio a fare una deviazione e salì su e io li seguii, Gianni e Motoko ci guardavano dal basso. Quando li raggiungemmo di nuovo Claudio diede dei fiori a Motoko dicendo con timidezza che Lella aveva detto che regalarne tre era un segno d’amore: erano stelle alpine.
Un giorno Motoko chiese a Lella “Sei mai stata a Srebrenica con Gianni?” “Sempre!” la mia compagna rimase stupita per la risposta senza esitazione. Da quando ha saputo dell’attività di loro due e ha cominciato a sostenerla insieme a Paolo, la gente di Srebrenica non è più sconosciuta. Per un attimo pensò e poi fece un'altra domanda: “Mi potete portare con voi?” Anche stavolta Lella le rispose senza esitazione. “Certo!” Da qual giorno Motoko ha iniziato a rimuginare qualcosa. Ah, compagna mia, di nuovo mi lascerai qui per andare chissà dove!? (Ululato).