Alberto Mazzoni, enologo e Direttore dell'Associazione Produttori Agroalimentare Marche nei Dialoghi del Vino
Il Dialogo del vino di questa settimana è con una persona con la quale siamo in rapporto da oltre 20 anni. Stiamo parlando di Alberto Mazzoni, enologo, fra i più stimati, nato a Porto San Giorgio (Fm). E proprio alla sua regione ha dedicato gran parte della sua attività, tracciando la strada della viticoltura marchigiana degli ultimi trent’anni. Il suo percorso professionale, infatti, iniziato presso il Consorzio Agrario Provinciale di Ascoli Piceno, ha attraversato realtà quali l'Ente di Sviluppo Agricolo nelle Marche, la Cantina Sociale del Cònero, la Cantina Sperimentale di Camerano, l’Istituto Marchigiano di Enogastronomia, l'Associazione Produttori Agroalimentare Marche, dei quali è tuttora Direttore. Ruolo che ricopre dal 1999 anche per l'Istituto Marchigiano di Tutela Vini. Dal 2018 Membro del Comitato Nazionale vini DOP e IGP, da due anni è stato nominato anche Membro Commissione di degustazione d’appello Vini a D.O. presso il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali.
Il perché sono arrivato a Mazzoni è presto detto: ci sono pochi vini “memorabili” come il Verdicchio, almeno nella mia esperienza (e proprio ieri sul portale IlGusto del Gruppo Gedi racconto di un produttore, Fattoria Coroncino, che fa parte di questa schiera, così come Bucci, Felici, Sartarelli, Vallorosa Bonci, Failoni, Pievalta, Santa Barbara e l’elenco sarebbe lunghissimo). Ma poi c’è stato il fenomeno emergente della Ribona che sta destando grande interesse nei nostri assaggi, e infine vini inaspettati nel Pesarese (Pinot nero, ma anche Bianchello del Metauro), nel Conero e nella provincia di Ascoli Piceno. E che dire di quell’estate a Ostra, con gli assaggi di Lacrima di Morro d’Alba, altra esperienza memorabile della mia vita? Tutto questo mondo, o quasi, si evidenzia sempre a Vinitaly, dove lo spazio dei marchigiani è imponente, ma anche a manifestazioni come quelle della Fivi o alla nostra Golosaria.
Iniziamo dunque la nostra chiacchierata da questo periodo per chiedere ad Alberto Mazzoni se il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto.
Non riesco ad essere negativo, nonostante le evidenti difficoltà.
Le cantine di tutta Italia erano in qualche modo uguali di fronte all’incalzare del Covid…
Fino a un certo punto, perché nelle difficoltà tu vedi le aziende preparate e quelle meno, e mi riferisco al tema commerciale e quindi della comunicazione.
Allora dove sta il bicchiere mezzo pieno?
Nel fatto che abbiamo scoperto, dopo 60 anni, che l’agricoltura è al centro. Abbiamo scoperto il cibo rispetto alla sua stagionalità; la prossimità è diventata quasi una sorpresa e il tempo ci avanzava, mentre prima quasi non bastava più.
Interessante questa riflessione che potremmo definire “umanistica”, ma quando parli di aziende preparate a cosa pensi?
A quelli che hanno investito in qualche modo nella promozione e si erano già attrezzati per l’accoglienza, favorendo il fenomeno dell’enoturismo.
Questo perché le Marche, che sono una regione al plurale, non ha come in altre zone l’azienda leader che fa brillare un territorio: che so, un Gaja per il Barbaresco o un Incisa della Rocchetta per il Bolgheri…
Non so se questo è il tempo delle aziende leader, so solo che chi ha costruito un mercato diretto ha ritrovato il rapporto con il consumatore anche in un periodo difficile come questo. Chi invece ha sviluppato solo il canale Horeca è come se avesse solo una scarpa.
E quindi?
Quindi si è capito che in economia bisogna sempre in qualche modo diversificare i canali. Da noi le aziende hanno sofferto e la forbice va da 20 all’80% di invenuto.
È tanta la seconda punta…
Nelle Marche, Paolo, ci sono 526 aziende che fanno vino; quelle presenti nella Gdo sono solo 27, per cui capisci bene che questo canale non ci ha dato ossigeno.
Quindi tolto l’Horeca, tolta la Gdo, rimane l’estero…
Ma ancora ci risiamo: 526 non hanno tutte la stessa capacità di esportare…
E quindi?
Ti sembrerà strano, ma qualche azienda ha iniziato a cambiare la tipologia di offerta ed ha recuperato dei punti, ad esempio con i bag in box.
Ma davvero?
Guarda, il mercato svedese ci insegna; oggi abbiamo la migliore offerta di vini di sempre, ma la Doc non può diventare un prigione, deve incontrare in qualche punto il mercato, devi dare soddisfazione al cliente.
Ma questo cosa ha significato?
Ad esempio che il vino ha iniziato a viaggiare nei negozi di prossimità, dal panettiere al verduriere, mentre le enoteche erano chiuse e ancora non abbiamo capito il perché.
E l’export?
Con l’export è andata abbastanza bene: se guardiano il periodo lungo del Covid, abbiamo avuto dei mercati esteri che ci hanno raggiunto, e poi il turismo nazionale dell’estate 2020 ha funzionato bene e molti hanno scoperto le Marche. Diciamo che quei mesi sono stati determinanti per assorbire la botta.
Se dici Marche quali sono i vini più gettonati?
Il Verdicchio per i bianchi, nelle due doc, e il Rosso Piceno. Questi due vini fanno i 70% del mercato e il secondo è molto presente nella Gdo.
E il Rosso Conero?
È un grande Rosso, ma questa congiuntura sta mettendo in crisi un certo tipo di vino purtroppo.
C’è stato un tentativo di inseguire il modello Toscano su certi vini muscolosi?
Assolutamente no, i viticoltori delle Marche sono molto radicati alle origini e questo a volte non fa scattare il cambio di marcia quando serve.
E dove lo attui il cambio di marcia?
Per esempio in vigna. L’uva è duttile e malleabile: la puoi regolare con le potature così come puoi decidere quando vendemmiare se hai presente il vino che vuoi dare a un mercato che sta cambiando.
Quindi il rosso ideale sarebbe il Lacrima?
Sì e no. È immediato perché è fruttato e piacevole, ma la sua anima aromatica non ha un gradimento assoluto.
E che dire della Ribona?
È una sorpresa, soprattutto quando l’assaggi dopo qualche anno. Ha diverse somiglianze col Verdicchio e io credo che sarebbe da spingere la Riserva.
E il Bianchello?
Ha futuro se arriva a raggiungere uno standard qualitativo. Con certi vini bisognerebbe ogni tanto ridiscutere il disciplinare di produzione, non è possibile che tutto resti fermo da 50 anni, perché a quei tempi la percezione della fattura di un vino era diversa.
Parliamo del Verdicchio: noto la tendenza di diverse aziende ad avere più referenze, l’ultima della serie è Coroncino che ho raccontato di recente.
È un’azienda che conosco bene e come tante qui da noi rappresenta l’artigianalità del vino, una capacità di lavoro e di lettura dell’ambiente che significa cultura della vite.
La differenza la fa il lavoro in cantina o la posizione?
La differenza la fa sempre il luogo. Poi ci può essere un sapere legato al taglio di certe partite, maturate in botti o meno, e qui nascono le diversificazioni. Ma l’identità resta salva.
Be' è curioso ciò che dici, del resto tutta la storia della viticoltura d’Oltralpe conferma esattamente questa tesi…
Ma certo, non puoi realizzare più referenze senza dare identità e soprattutto, di fronte a certe vendemmie non devi avere fretta di vendere. Penso a Bucci, per citare uno noto a voi giornalisti: lui ha iniziato a parlare proprio del Verdicchio e degli anni in cui si compie, almeno tre, ma anche San Barbara e molti altri. Ed è qui che recuperi terreno sul valore aggiunto, nel tempo.
C’è poi il tema del Bio. Molte aziende marchigiane hanno una certificazione di questo genere e la cosa si sta notando…
Siamo la 7^ regione come superficie Bio, avendo il 34% dei vigneti convertiti.
È tanto…
Ma non basta, per questo abbiamo firmato il progetto Biomarchigiano, per fare le Marche del vino tutte bio, almeno entro 10 anni.
Però un fenomeno del genere non nasce dall’oggi al domani.
Paolo, tu lo hai conosciuto Gino Girolomoni no?
Sì certo…
È stato il precursore ed era un marchigiano. Già nel 1970 si cominciava a parlare di basso impatto ambientale. Per questo mi sento di dire che “Il cuore del bio sta nelle Marche”.
Quindi è una convenienza culturale…
Biologico si nasce non si diventa perché c’è il contributo. La scelta bio è uno strumento chiave per incentivare l’economia locale, un alleato essenziale per l’equilibrio del processo alimentare e di conseguenza per la salute, un modello socio-economico. Sono queste le caratteristiche fondamentali della produzione Bio ma anche le finalità di quello che sarà il Distretto Biologico unico delle Marche più grande d’Italia e d’Europa.
Anche la politica è con voi?
“La Regione Marche crede fortemente nelle potenzialità di questo settore – ha dichiarato Mirco Carloni, assessore regionale alle attività produttive – come traino per molti altri comparti e cerniera di uno sviluppo sostenibile anche a livello turistico-ambientale. E ancora: “Il biologico, forte di una tradizione radicatissima nella nostra regione, è un valore aggiunto fondamentale che vogliamo inserire e far crescere in un ampio progetto di sostenibilità che integra ambiti culturali, per esempio con la Legge sui borghi; il Turismo con il progetto “Albergo diffuso” ma anche gli operatori turistici, le amministrazioni locali, le associazioni e tutti i privati che abbiano in comune la stessa visione: rendere il brand Marche leader del biologico in Europa e quindi Regione sinonimo di qualità di vita.”
Be' è un programma ambizioso quello che ha annunciato l’Assessore… I tempi sono maturi?
Siamo tra le regioni con la crescita più alta nel numero di operatori: il 32% in più rispetto all’anno precedente. La Superficie Agricola Utile ( SAU) marchigiana, gestita con metodo biologico, ha raggiunto i 104.567, superando del 20% la SAU media nazionale.
Però c’è il mondo degli enti certificatori, che sono tanti...
Sono 18 e ancora non c’è un sistema nazionale per avere dati certi e omogenei da tutti, mentre è importante dare una “certificazione” complessiva della situazione italiana.
Detto questo, più volte hai parlato di “promozione” che è un elemento fondamentale del Marketing. Ma nel frattempo che si fa? Si distilla?
Io credo che sia più realistica la distillazione dello stoccaggio eccessivo; ma la distillazione d’emergenza dev’essere congrua, almeno al prezzo del mercato dello sfuso. Quindi io sono per una distillazione straordinaria e conveniente per i vini doc italiani.
Sempre i termini di promozione, il Vinitaly vi manca?
Secondo me non si può fare a meno di Vinitaly. È come l’affetto che si prova per la propria terra. Vinitaly tiene legati, significa rapporti, relazioni. Noi siamo pronti per il 2022.
E per la special edition?
Io sono d’accordo, dobbiamo tornare a vivere. Ripartiamo! Capisco che è ad ottobre e magari non saremo in mille (dico un numero a titolo di esempio) ma con quei 100 che ci saranno ripartiamo: dobbiamo dare un segnale, dobbiamo far girare gli aerei in cielo. È un messaggio di movimento che dobbiamo dare ai consumatori e anche agli operatori. Bisogna andare avanti!