Vent'anni fa ci lasciava Gino Veronelli. Il ricordo di Paolo Massobrio
Ho pensato a lungo alla forma con cui renderti omaggio, a vent’anni da quando te ne sei andato, e alla fine ho pensato al dialogo diretto, perché fra le persone che non sono più in mezzo a noi la tua presenza si sente ancora, ed è una pietra di paragone. E forse è questo il motivo per cui molti, anche fra i colleghi, ti hanno dimenticato (non ti si può dimenticare, però, diciamo che ti hanno censurato dai!). Quando proprio in questi giorni (era il 1985) ti chiamai dal mio telefono a muro dell’abitazione a Milano per scrivere il mio primo articolo sul settimanale Il Sabato, ero in apprensione: chissà se mi risponde e soprattutto se mi dà retta. E invece mi dicesti subito: “Ma se sei uno che scrive siamo colleghi, diamoci del tu!”. Non ero neppure pubblicista, ma quella medaglia che ricevetti (dare del tu a un mostro sacro del giornalismo enogastronomico) la diffondo anch’io tutte le volte che un giovane mi chiama. Per quel servizio mi regalasti la tua ricetta di Natale, che era la torta di formaggio (la ripropongo tale e quale in fondo a questo articolo e la farò prossimamente), riportandoci ai gusti semplici, schietti, di quel mondo contadino che hai fatto crescere: nel vino, nell’olio e quant’altro.
Lunedì sera mi hanno invitato a Parma, per un convegno che è durato più di due ore dal titolo “W Gino!”. Paolo Tegoni che ha organizzato l’incontro ha invitato un personaggio che rappresentasse ogni categoria del tuo interesse, dall’editore al cuoco, dall’antropologo al vignaiolo. Per la categoria giornalisti ha scelto me. E mi ha fatto piacere, ma sai quanti sarebbero ancora pronti a rosicare? Io e te distanti e vicini, che abbiamo litigato in maniera accesa per due anni interi, dopo che presi il tuo posto all’Espresso, dove per vent’anni parlasti di vini e vignaioli.
Distanti perché un anarchico e un cattolico, per le categorie del mondo e l’idiozia della gente, non dovrebbero neanche parlarsi; vicini perché il cuore dell’uomo è uguale per tutti ed è capace di stima, di amicizia, di superare qualsiasi cosa perché – come mi scrivesti tu in quel fax prima di Natale che pose termine ai nostri litigi – l’ideologia può essere assurda.
Ho scelto questa foto, che è quella con Anna Bologna, la moglie di Giacomo, che soffriva per i nostri litigi, anche pubblici, e che insistette perché io venissi a presentare il tuo libro su Giacomo a Rocchetta Tanaro (e non volevo). E lì, con te seduto davanti dissi quello che avevo nel cuore: “Quando chiesi a Giacomo chi era Veronelli, lui mi rispose: Veronelli è il Vangelo, punto! Ora se adesso chiedessero a me chi è Veronelli, saprei bene dove mettere il punto... (in sala calò il gelo, perché tutti sapevano dei nostri contrasti e si respirava tensione). Per me Veronelli – dissi – è il maestro, punto! E il maestro ha una sorte bizzarra, perché non si sceglie gli allievi, se li ritrova”.
Il capitolo più lungo del mio libro “Del Bicchiere Mezzo Pieno” racconta tutto di quei nostri anni travagliati ed è dedicato a te, e all’abbraccio che ne è seguito: scandalo per gli idioti (i “cassmol” li chiamavi) che dividevano il mondo in due, secondo i criteri dell’ideologia. Eppure mi hai fatto crescere con quei litigi e te ne sono grato. Geniale la tua battaglia sui cru nei territori pregiati del vino, appassionante quella sulle De.Co., acerba quella sulle barrique, mai capita quella sull’olio denocciolato. Il tuo metodo era certamente anarchico e senza calcolo: ponevi un valore e partivi lancia in resta. Poi le cose andavano ordinate, ma la provocazione conteneva il valore: la barrique elevava il vino, ma quanti hanno venduto le loro sperimentazioni salvo poi arrivare nel tempo ad un uso cosciente?
Per le De.Co. ne so qualcosa, perché dopo che a Barge mi tirasti quell’affettuoso pugno nella schiena quando ci diedero un premio, io andai avanti, affrontando i funzionari del ministero che tu avevi detto, soprattutto di uno, che fosse un corrotto. Mi sembrava un’esagerazione, come tante delle tue, ma quando ho letto che proprio quel funzionario è stato arrestato, mi son detto: Gino era profetico. Non ti ho mai dimenticato, e quante volte mi sono trovato a parlare di te: l’altro giorno con Gianfranco Fino, che mi ha raccontato della passione dell’olio; ma anche con Roberto Anselmi, con Angelo Gaja, con cui talvolta ci incontriamo o con i figli di Giacomo e Anna, con Marzia Riccardi e Martino. Tutti amici che rendono ancora più vivo quel presente che sei e che è destinato a durare millant’anni (questa è tua).
Ti ricordo con la cravatta (non ti avevo mai visto) al funerale di Riccardo Riccardi conte di Santa Maria di Mongrando, tre mesi prima esatti della tua dipartita. La notizia mi giunse mentre a Torino, quel sabato 29 novembre stavamo facendo un’edizione di Golosaria al teatro Regio. “E’ morto Gino!!!” mi urlo dall’altro capo del telefono Romano Dogliotti. Fermai tutto e facemmo un minuto di silenzio, in quel luogo dove un anno prima presentammo il libro su Riccardo Riccardi che mi chiedesti di scrivere per la collana I Semi di Veronelli. Potrei andare avanti ancora (e meriterebbe farlo, dopo vent’anni quando bisogna ridire chi eri) perché la tua vita è stata tutta un seminare, pur nella contraddizione talvolta. Ci hai insegnato che il vino doveva essere raccontato in maniera colta e quando leggo le descrizioni dei blogger che virano fra croccantezza e verticalità, mi vien nostalgia dei tuo “Capitano di ventura”. Stasera aprirò un vino che tu sai: le uve le abbiamo raccolte insieme coi vignaioli della Georgia venuti a Rocchetta: il 19 ottobre del 1989, l’anno prima che ci lasciasse Giacomo. Insieme lo abbiamo poi battezzato “Ai Suma!" Barbera d’Asti superiore nel vero senso della parola. Fu il vino che ti dedicai nella mia prima rubrica sull’Espresso dicendo che non ti avrei mai sostituito, perché un maestro non è replicabile. Delle tante cose che mi hai lasciato c’è il “Camminare le vigne”, che a me manca moltissimo, per questo sei irraggiungibile: la tua relazione con i contadini e i vignaioli è stata ammirevole e prodiga di crescita per tutto il mondo del vino. Io ti inseguo nell’imitazione, dicendomi che devo dare più tempo per questo, per scoprire, come hai fatto tu, che la vigna è il canto della terra verso il Cielo. Ciao Gino!
Ecco la ricetta della Torta di Formaggio pubblicata il 10 dicembre 1995 sul settimanale IlSabato, nel servizio a mia firma dedicato al Pranzo di Natale, con i contributi di Luigi Veronelli, Luigi Gaviglio, Gualtiero Marchesi, Guido Alciati e Vincenzo Buonassisi.
"Metto in una terrina di terracotta o meglio di porcellana, della capacità di 4,5 litri, 20 gr di burro fresco e una cipolla tritata. Lo faccio cuocere a fuoco lento finché la cipolla non ha un bel colore biondo, aggiungo allora due bicchieri di buon brodo di manzo (ueh, almeno qui, davvero brodo di manzo!), una fogliolina di lauro, una pizzicata di pepe rosso, un pizzico di spezie fini e del pepe bianco macinato al momento; faccio ridurre il brodo a metà ed elimino la fogliolina di lauro.
Dispongo nella terrina alternativamente un strato di pane “posso” (“pan poss” è detto, in milanese, il pane raffermo) e uno strato di fettine fini di buon gruviera e li bagno ognuno con 5 cucchiaiate di buon brodo, continuo procedendo nella stessa maniera e termino con uno strato di fette di pane; introduco nel forno la terrina unita dal suo coperchio e ogni cinque minuti bagno la preparazione con un bicchiere di buon brodo fino a che il liquido copra l’ultimo strato di pane. Lascio nel forno a temperatura dolce, non meno di quattro ore, dopo questo tempo levo la terrina dal forno. Se la zuppa è troppo spessa la bagno con una quantità sufficiente di brodo caldo (deve tuttavia conservare una certa consistenza)”.