All’incrocio del 4° quartiere di Ginza, nel cuore di Tokyo, dove transitano ogni giorno, ordinatamente avviate ai loro uffici, centinaia di migliaia di persone, accompagnate dalla voce metallica dei semafori blu, mi fermò un reporter di qualche canale televisivo. Avevo un importante appuntamento di lavoro per cui ero vestita molto elegantemente ed ero di corsa.
Era il 1993 e, quell’anno, l’estate era stata molto fredda. Questo aveva causato una grave diminuzione del raccolto di riso a cui seguì, naturalmente, una carenza nella distribuzione. Così il riso era sparito dagli scaffali dei negozi.
“Lei come se la cava senza riso?”
Nonostante io potessi immaginare la risposta che si aspettava da me, dissi “io? Sì, ne ho. Siccome la mia famiglia è di risicoltori, me ne hanno mandato.”
In quel autunno il governo giapponese organizzò un’importazione urgente di riso dalla Thailandia, dall’America e dalla Cina. Era il periodo in cui il governo discuteva sull’apertura del mercato del riso ai paesi esteri su pressione degli Stati Uniti e di altri, mentre prima avevamo un mercato totalmente chiuso per motivo di sicurezza agroalimentare e di protezione del prezzo. Il freddo di quell’estate diede una spinta alla liberalizzazione e diede un peso diverso ad ogni chicco di riso che si trovava nella ciotola del nostro mangiare quotidiano. Il reporter voleva raccogliere voci preoccupate sulla mancanza di riso e opinioni sulla liberalizzazione ma, in contrasto con le sue aspettative, ero una campagnola. “Papà dice che non darà nemmeno un chicco di riso ad una come te che se n’è andata a vivere a Tokyo”. Così mi aveva detto mia madre al telefono ma, dopo qualche giorno, mi arrivò un pacco di 20 chili di riso e l’indirizzo era stato scritto inconfondibilmente da mio padre.
Mio padre era molto bravo a coltivare il riso e non solo: in campagna era bravo a fare qualsiasi cosa. Oltre alla lunga esperienza, lui aveva quell’intuizione straordinaria che ti permette di scegliere il momento migliore per intervenire, quando aumentare l’acqua in risaia o toglierla, quando essiccare le rape o aggiungere il sale e così via. La sua bravura nella coltivazione del riso era conosciuta in tutta la regione e, su richiesta del Tempio di Eiheiji, il più importante centro Zen Soto, coltivò dagli anni ’60 per qualche decennio il riso biologico per il grande maestro, che non deve mangiare alimenti coltivati con uso di sostanze chimiche. Quarant’anni fa nessun contadino giapponese metteva in discussione l’uso di fertilizzanti o di sostanze chimiche nella coltivazione, nessuno tranne mio padre. Anche in quell’estate fredda era riuscito ad ottenere un buon raccolto, quasi come negli altri anni, sia qualitativamente che quantitativamente. ?
Però, parlando della sua vita, quando era giovane voleva diventare un pittore. Già al liceo aveva vinto un concorso riservato ai professionisti ed aveva passato l’esame d’ammissione all’accademia della città di Kanazawa. Tuttavia la famiglia non gli permise di frequentare quella scuola e gli impose di tornare a casa. Qualche tempo dopo passò l’esame per diventare membro della guardia imperiale ed il comandante della polizia della zona venne per convincere la famiglia, dicendo che era una cosa sommamente onorevole, ma fu soprattutto suo nonno che si impuntò e non lo lasciò partire. Ottenne perfino una licenza di somministrazione alimentare, ma non gli fu mai permesso di fare il cuoco.
Cominciò ad avere la passione di coltivare il riso solo più tardi, a trent’anni, quando andò a studiare per un anno agraria in un’università degli Stati Uniti e vide le coltivazioni su vasta scala in California (mi raccontò che, nella vita, fu l’unica cosa che gli concesse suo nonno). Credo che le risaie curate dai nippo-americani della zona brillassero da allora nei suoi occhi e gli avessero fatto cambiare la sua visione dell’agricoltura. Tuttavia, dopo il suo rientro in Giappone, vide che la realtà era ben diversa: piccoli appezzamenti, spesso terrazzati in zone collinari, richiedevano un impegno costante e duro e, soprattutto, meno redditizio. Allora lui organizzava, di tanto in tanto, per avere qualche stimolo nella vita, qualche evento speciale che noi dovevamo subire. Ad esempio, per dimostrare gratitudine a chi lo aveva mandato in America, volle ospitare a casa nostra degli studenti indonesiani a cui insegnare i lavori di campagna. Povera madre mia che si trovò un giorno a casa, al ritorno dal lavoro, senza preavviso, quel ragazzo di carnagione scura che la chiamava molto rispettosamente “signora madre”! Quando capì che sarebbe vissuto da noi nei mesi successivi, pianse più di una volta. Per i lavori di trapianto delle piantine e per la raccolta del riso per il grande maestro di Eiheij, invitò i bambini della scuola elementare della zona e qualche monaco giovane di Eiheiji e li faceva lavorare insieme. Per i bambini fu una bellissima esperienza ma, soprattutto per lui, fu come una festa. Il riso raffinato veniva messo in una tawara (un saccone tradizionale fatto di paglia) ed arrivava fino al tempio su di una portantina, portata sulle spalle dai bambini. Fece radunare anche la gente del paese e convinse le donne a cuocere il riso con cui preparare le tradizionali polpette, da servire ai bambini e ai monaci. Quando ci penso ora, mi fa sorridere perché portare il riso sulla portantina è proprio una tradizione dello shintoismo, quindi non c’entrava nulla con un tempio di buddhismo zen! Più di 2mila anni fa, prima che la coltivazione del riso venisse importata dalla Cina, in Giappone oggetto di culto era il fuoco. Dopo l’inizio della coltivazione, acqua e sole, che condizionano il raccolto, diventarono molto più importanti; così i Giapponesi si votarono al culto di questi due elementi. Nei riti dello shintoismo propiziatori alla raccolta viene dedicato agli Dei il riso, prima di ogni altra cosa.
Sia il riso giapponese che quello italiano sono a grana corta ma, quello giapponese, contiene più proteine ed ha un gusto leggermente più dolce. Sarà forse questo il motivo per cui invece di cucinarlo, come nel risotto italiano, aggiungendo qualche gusto, lo si fa cuocere solo con acqua e con un coperchio sopra, per aumentare la pressione interna, così resta più soffice. Quindi lo si mangia come contorno, insieme a qualche altra pietanza. Come il pane per gli Italiani, il riso bianco è l’alimento principale per i Giapponesi ma, soprattutto al naturale, fa sentire loro la sua vera qualità, risultato di una buona coltivazione. Anche noi, prima di mangiare, preghiamo giungendo le mani ma, nel nostro caso, la preghiera è soprattutto un ringraziamento per il dono del riso. Per questo nel 93 la preoccupazione di tutti per la sua scomparsa dal mercato era stata fu molto forte. Il gusto di quello che mi mandò mio padre in quell’autunno me lo ricordo ancora oggi. I Giapponesi, per gustarlo perfettamente, lo mangiano spesso solo con un umeboshi (una prugna ancora verde sotto sale e basilico rosso) che ha un gusto salato e molto acido. Anch’io allora lo gustai così ed aveva una lucentezza come quella del miele ed una dolcezza lieve. Per la nostalgia ho provato il riso di produttori diversi, ma non ho più potuto ritrovare quel sapore, da nessuna parte. Quando trovai un posto di lavoro al Ministero dell’Agricoltura, quello più contento fu mio padre. E, quando si seppe che io sarei andata a vivere a Tokyo, il più triste fu sempre lui. Mi considerava, mio malgrado, come il suo successore e capì allora che, senza di lui, non sarebbe sopravvissuto neanche il suo riso.
Ormai sono passati più di 20 anni e mio padre è mancato 3 anni fa. Ho lasciato Tokyo e mi sono trasferita in Italia, aumentando la distanza di altri 10 mila chilometri. Le risaie vercellesi e biellesi, che ormai fanno parte del mio paesaggio, sia per misura che per struttura sono diverse da quelle giapponesi ed ancor più diverso è il gusto e l’uso del riso che producono. Tuttavia vedo le piantine verdi che crescono, si ingrossano i cespi e poi cominciano a maturare le spighe. Il ritmo del ciclo annuale delle piante è identico a quello dei miei ricordi d’infanzia. Averlo qui, vicino alla mia vita, per me è un miracolo e mi dà gioia. Mio padre dall’al di là cosa mi direbbe? Magari mi farebbe solo quel suo ghigno indecifrabile o altrimenti mi direbbe qualche sua cattiveria da bastian cuntrari.