Seduta davanti a casa sulla scalinata d’ingresso, alzai la faccia bagnata di lacrime, tenuta nascosta fra le braccia e vidi l’ultimo raggio di sole sciogliersi nel buio della notte che scendeva. Mi resi conto che, per la prima volta nella mia vita, avrei dovuto trascorrere una notte fuori casa.
Mio padre era uno che mostrava sempre il muso duro, come se fosse la missione della sua vita ma, in quel giorno d’inizio estate, sorridendo mi disse: “E’ un regalo. Tienilo” e mi porse quello che sembrava un blocco di fango. Con un gridolino, scappai. “Stupidina, guarda bene!” e me lo mise ancora più sotto il naso. Guardando con più attenzione, in effetti, capii che era un nido di germano reale e dentro c’erano, una accanto all’altra, tre uova. Mio padre l’aveva trovato mentre lavorava in risaia ma la loro madre, forse spaventata dal rumore del trattore, non era più tornata. E aggiunse che, poiché la mia gallina era proprio nel periodo della covatura, avremmo potuto introdurle sotto le sue ali di notte; così le avrebbe covate insieme alle sue.
Così avvenne che, dopo qualche settimana, nacquero i pulcini di germano reale e mi facevano tanto ridere i loro passi barcollanti sulle zampette palmate. Un giorno, ne tirai uno fuori dalla gabbia e giocavo ad inseguirlo nel giardino quando, purtroppo, finì sotto la casa entrando dallo sfiatatoio (La casa tradizionale giapponese, costruita in legno, ha un’intercapedine vuota tra le fondamenta e il pavimento, dove passa l’aria, che entra da un buco con funzione di sfiatatoio). Provai ad infilare un bastone dal foro dello sfiatatoio e lo chiamai, ma niente da fare. I versi impauriti del pulcino si avvicinavano e poi si allontanavano. Con ansia cercai di intravederlo attraverso un foro del pavimento, inutilmente. Rimasi lì accosciata senza sapere cosa fare. Mi resi conto che quella volta avevo esagerato con le mie monellerie solamente quando tornò mio padre dal lavoro e lo vidi arrabbiato furiosamente. “Hai scherzato con una vita preziosa!” quando sentii le sue parole capii che quel pulcino stava correndo il rischio di morire. “Tu non potrai mai più mettere i piedi in questa casa finché quel pulcino non esca fuori di là vivo!”
Alzandomi disperata dalla scalinata, entrai nel fienile di fronte a casa, misi a posto la paglia per farmi uno spazio da lettino e mi sedetti lì. Mi ero dimenticata anche di asciugare le guance bagnate. Arrivò mia nonna preoccupata e mi lasciò una piccola coperta, dicendo che l’aria serale sarebbe stata piuttosto fresca. Nel fienile infatti entrava tutta l’aria corrente, senza pietà. Così mi coricai sulla paglia, rannicchiando al petto le ginocchia. Non era il massimo della comodità, ma l’odore caldo della paglia mi consolava un po’. Ormai era cessato il canto delle cicale che rimpiangeva l’arrivo della notte, invece l’arietta mi portava un coro di grilli da lontano. Fino a quel momento il senso d’avventura aveva avuto il sopravvento, ma ora il rimpianto per il pulcino ed il timore del buio cominciarono a tormentarmi, alternativamente.
Ad un tratto sentii voci di ragazzini che mi chiamavano. Erano Maco e Kazu, i miei vicini di casa, che venivano ad invitarmi a caccia di lucciole. Entrambi portavano una canottiera con, a tracolla sulla spalla abbronzata, una gabbietta per insetti. Ascoltarono in silenzio tutte le mie disavventure. Maco, il più grande, mi disse che avrei comunque potuto andare con loro e poi tornarmene lì a dormire.
Nel mio paese c’era una roggia di acqua pulitissima dove cresceva un erba particolarmente verde; era la casa di migliaia e migliaia di lucciole che partivano ondeggiando per l’aria, una dopo l’altra. Mentre ci si avvicinava, il rumore dei passi era coperto dal coro dei grilli, poi si cominciava a scorgere il corso d’acqua illuminato dalle luci vaganti. Era quasi una visione. Noi, bambini, ne ficcavamo centinaia nella gabbietta da portare a casa e trascorrevamo la notte contemplandole, al buio, sotto la coperta.
?L’invito di Maco mi tirò su un po’ il morale, ma i versi del pulcino rimanevano nelle mie orecchie e non ne avevo voglia. Salutai gli amichetti che se ne andarono delusi lasciandomi di nuovo sola. Cominciavo a sentire fame. In effetti le vicissitudini della giornata mi avevano lasciata senza cena, solo allora me n’ero accorta, così ebbi ancora più fame. Coricata sulla paglia non potevo che aspettare il passare del tempo. Coprii la testa con la coperta di nonna...
Chissà per quanto ero rimasta così. “Sorella!” alzai la testa al suono della voce e vidi mia sorella minore. “Stasera c’è stato katsudon. È diventato freddo, ma te l’ho portato. Mangialo!” Il Katsudon è una cotoletta di maiale impanata che, quando è appena fritta, ancora calda fumante, va tagliata in pezzi e fatta cuocere ancora velocemente, con cipolla a fette e brodo agrodolce, insieme ad un uovo sbattuto. Si mangia mettendoci sopra riso fragrante, appena cotto. È una ricetta casalinga molto simpatica. Mia sorella portava uno scodellone con il katsudon più grande della sua testa, reggendo il vassoio con fatica. Guardando bene, si vedeva anche una tazza di tè caldo, con a fianco le bacchette. Purtroppo, all’interno del fienile, era così buio che non vedevo né la cotoletta né il riso. Ma, mentre ero in difficoltà, Maco e Kazu ritornarono con la loro gabbietta riempita di lucciole. “Tienila tu! Puoi mangiare con la luce delle lucciole!” “Sì, dai, tieni anche la mia!” Entrambi tenevano la loro gabbietta a far luce davanti al mio vassoio. Il piatto di katsudon, ora illuminato dalla luce fioca delle lucciole, non sembrava per niente appetitoso, ma presi in mano le bacchette e mi sforzai di assaggiare un boccone di riso con la cotoletta. Masticando il pezzo di carne, ormai fredda, sulle mie guance scendevano di nuovo le lacrime.
Dopo mezzanotte venne per la prima volta mia madre e mi disse di tornare in casa. “…ma il pulcino morirà, vero?” allora lei mi rispose che papà aveva sentito il pigolio del pulcino e, staccando una trave del pavimento, anche se ci aveva messo molto tempo, era riuscito a salvarlo. “Vai a chiedere scusa a papà e vai a dormire.” È una storia di quando avevo 10 anni.
Negli anni 90 un’estate tornai al mio paese da Tokyo e andai a vedere che fine avesse fatto quella roggia. Era completamente cementificata. La casa delle lucciole era stata distrutta in modo spietato. Anche quel fienile era stato demolito e lo vidi rasato al suolo. Ormai vivo qui in Italia, lontano da quel posto e, a volte, mi viene il dubbio che quella storia, sia la roggia illuminata dalla luce pallida delle lucciole, che lo scodellone di katsudon, non siano esistiti se non in qualche sogno. Ma in un estate come questa, in cui vedo numerose lucciole qui a Sordevolo, mi viene sempre in mente quella strana cena e quella serata d’estate.
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