Alla scoperta del bue di Kobe, o carne Wagyu, nel ristorante di Haruo Ichikawa a Milano
Quando si parla di cucina giapponese anche chi non ne sa niente conosce la parola sushi e la seconda, che suscita anche più curiosità, è bue di Kobe. Sul bue di Kobe sono fioriti poi aneddoti e leggende metropolitane, un po’ perché quel che è giapponese deve sempre essere strano, un po’ per giustificarne il prezzo esorbitante. E allora si favoleggia di massaggi con la birra, di musica classica, soprattutto Mozart, per rilassare gli animali e chi più ne ha più ne metta, tanto che spesso ho pensato: “Se devo morire, vorrei morire da bue di Kobe”.
Allora, per fare un po’ di chiarezza, vi dirò che il bue di Kobe non è una razza ma un marchio che certifica la provenienza dalla prefettura di Hyogo (dove si trova la città di Kobe) di un bovino Wagyu. I più informati oggi dicono carne Wagyu e non più bue di Kobe ma la parola Wagyu vuol dire semplicemente “bovino giapponese” e quindi non ci dice più di tanto. Per farla breve sono bovini perlopiù dal manto nero e la loro carne ha un grasso intramuscolare (marezzatura) che contiene omega 3 e omega 6 e, rispetto alle altre carni, ha una maggior componente di grassi insaturi (grasso buono). In effetti gli animali vengono allevati in stalle pulitissime, viene dato loro come mangime mais, riso e orzo e si cerca di farli vivere con il minor stress possibile in maniera sana e tranquilla.
La prima volta che ho mangiato questa carne in Giappone, circa venti anni fa, non l’avevo apprezzata più di tanto; abituato al gusto intenso e vivace della piemontese, non ero stato particolarmente impressionato dalla morbidezza e avevo pensato che, nell’allevamento, si fosse tentato di riprodurre la consistenza del tonno. Naturalmente sbagliavo da neofita ma, devo dire che, ad ogni assaggio successivo, nel corso del tempo, il sapore diventava più convincente e probabilmente non solo perché fossi diventato io più esperto ma anche per una maggior ricerca del gusto da parte degli allevatori, ottenuta anche con tecniche di allevamento che alternano alla stalla il pascolo e quindi un’alimentazione più variegata.
Per promuovere il consumo della carne Wagyu in Italia il Ministero dell’Agricoltura delle Foreste e della Pesca del Giappone ha organizzato una serie di cene a Milano nel ristorante Ichikawa. Inizialmente mi sono stupito che si fossero affidati a un cuoco di sushi, sicuramente più famoso per il pesce ma, conoscendo lo stile e la tecnica raffinatissima del maestro Haruo Ichikawa, ci sono andato con molta curiosità e aspettativa.
Quando gli ho chiesto che differenza ci fosse per lui tra cucinare la carne e cucinare il pesce, mi ha risposto con il suo serafico sorriso: “Cucinare il pesce è più difficile”. E di lì è iniziato il viaggio tra terra e mare.
La prima esperienza è stata la Wagyu salada, un involtino di carne di wagyu con gambero scottato all’interno su aceto di riso con letto di alghe mozuku, uova di salmone marinato in soia e yuzu, jalapeňo, fiori di wasabi e asparagi;
indimenticabile poi il Sukiyaki, stufato di wagyu con uovo cotto a bassa temperatura, funghi shitake, carote, spaghetti shirataki e spinaci
e poi l’ultimo pezzo di sushi fatto con carne di wagyu scottata con salsa teriyaki. Naturalmente il tutto inframmezzato da tutti i sushi possibili e immaginabili, con i pesci più freschi di Milano e l’immancabile anguilla alla giapponese, il mio piatto preferito.
Non c’è nulla da aggiungere su Ichikawa, che verrà premiato il 19 marzo a Golosaria Wine con la meritatissima corona radiosa, se non che il divertimento che si prova è merito di tutto l’affiatatissimo staff e che, affidandosi al mariage del sommelier, si beve benissimo, sia vino che saké.
Ichikawa
Via Lazzaro Papi, 18
Milano
Tel. 02 47750431
ichikawamilano@gmail.com
www.ichikawa.it