L'incontro con Vincenzino, le sue arance e la Sicilia più autentica.
“Mio suocero ha detto questa cosa a voi e non a me!?”
Salvo, un nostro amico, spalancò gli occhi per lo stupore. Perfidamente Claudio, mio marito, gli disse: “Ma sì, ha detto che il portone che c’era prima era più bello.”
Si trattava del nuovo portone della casa per gli ospiti, fatta costruire da lui a fianco della casa di famiglia. Davanti a questo portone di buon gusto, opera di un abile fabbro, con la stemma a forma di vite coltivata ad alberello etneo, Vincenzino, suo suocero, aveva rimpianto il vecchio portone che non aveva nulla di particolare.
Eravamo in quella cittadina vicina a Caltagirone per trovare Salvo e non ci volle molto tempo per creare una simpatia con suo suocero. Andava tutte le mattine a lavorare l’orto vicino alla nostra residenza e, mentre zappava, gli facevamo domande sulle varie verdure e Claudio gli raccontava dell’orto di suo padre piemontese. Non appena prese confidenza con noi, iniziò a brontolare qualche cosa sul concime organico in siciliano, per noi quasi impossibile da comprendere.
“Mio genero mi dice che è meglio questo, ma anche prima di usare questa roba io le verdure le coltivavo benissimo”.
“Vi ha detto anche questo? E poi ha detto pure qualcos’altro?”
Ma gli occhi di Salvo ridevano. “Che le olive vanno raccolte aspettando che siano ben mature e che suo genero non capisce un tubo.”
“Sono stato io a scegliere il momento migliore per la spremitura, per questo il nostro olio è migliorato molto!”
Sulle labbra di Salvo era comparso un sorriso. Sia lui che noi ci rendevamo conto che, anche se pareva dicesse sempre il contrario, per Vincenzino tutto quello che faceva Salvo nel suo lavoro era da tenere in grande considerazione.
Nonostante avesse più di 80 anni, con la schiena sempre dritta, Vincenzino zappava senza nessun riguardo. Gli occhi piccoli appoggiati su un gran nasone guardavano sempre avanti. Dopo poche ore dal nostro arrivo ci eravamo già resi conto che quell’anziano ingenuo e sincero sarebbe diventato un protagonista particolare di quel viaggio in Sicilia.
Al mattino dopo ci trovammo nel giardino delle arance di Vincenzino. Su suo invito entrammo nella sua capanna dove erano riposti in perfetto ordine una scaletta di legno, cesti di vimini, vari tipi di zappe o falcetti. Prendemmo una scaletta sulle nostre spalle e uscimmo fuori: solo allora vidi, al di là di un grosso fico d’india, la città tutta bianca da dove eravamo scesi. Era proprio questa la Sicilia! Entrammo sotto il boschetto dove il verde delle foglie di arancio rifletteva il chiarore del sole ad illuminare qua e là quelle rotondità formose dal colore arancione.
Rimasi lì per un po’ a rimirare quella scena in cui si estendevano sopra la nostra testa per mille braccia solamente due colori ugualmente brillanti. L’amico anziano continuò a procedere verso il fondo del giardino distinguendo la varietà di ogni albero, tipo vaniglia o tarocco gallo e così via. Ogni tanto si voltava indietro a suggerirci di raccogliere la frutta, quanta ne volevamo. Appoggiai il palmo della mano sopra un frutto e ne sentii il nettare appiccicoso. Non mi era mai successa una cosa simile con le arance. La mia cesta arrivò ad un tratto al limite del peso sopportabile.
Poi volle farci vedere la cisterna fatta personalmente da lui. Aveva fatto molta fatica, ma con quella aveva irrigato tutto il suo giardino. Dicendolo indicò orgogliosamente con un braccio tutto quello che gli stava attorno. Seguii con l’occhio tutto il giro indicato dalla sua mano e trovai numerose arance rimaste per terra.
Mi chiedo come mai… perché? son così buone! “Negli ultimi anni le nostre arance vengono pagate circa 50 centesimi al chilo. Non possiamo pagare neanche la mano d’opera per la raccolta. Quindi, dai, portatene quante ne volete! Sono buonissime!” e fece un sorriso forzato.
Riempimmo il baule della macchina e tornammo a casa di Salvo. Sul rettilineo verso la città tirava un vento secco che alzava una polvere gialla. Intravidi un camioncino che attraversava la strada carico di qualche decina di piantine d’arancio da piantare in qualche giardino. Dopo le parole di Vincenzino, non potei fare a meno di seguirlo con gli occhi.
Claudio voleva invitare Vincenzino a cena. Avevamo programmato che il giorno successivo saremo andati al mercato di Catania a comprare il pesce e avrei cucinato per tutti gli amici. Ma Salvo ci anticipò che sarebbe stato molto difficile far venire suo suocero perché è estremamente conservatore nel mangiare.
“Io mangio solo pasta con le fave!” aveva detto così. E così era stato respinto il nostro invito.
La sera successiva ci divertimmo a cena con la famiglia di Salvo, i parenti e gli amici. Il tonno trovato al mercato aveva una perfetta grassezza e i ricci di mare, i gamberi e gli altri pesci erano freschissimi e tutti prendevano il sushi con le mani di buon umore o stuzzicavano il pollo fritto all’orientale. Ad un certo punto sentimmo qualcuno che bussava alla porta e poi il verso di sorpresa di chi gliela aveva aperta. C’era Vincenzino in piedi, con la sua schiena dritta e con una giacca addosso abbastanza formale. “Papà… e la tua cena?” gli aveva chiesto Mariagrazia, la moglie di Salvo.
“Mangio qui.” La sua risposta alla figlia era stata diretta. Quelli della famiglia si guardavano fra di loro. Claudio si affrettò con un piatto di sushi in mano, ma lui disse chiaramente che non mangiava pesce crudo. Non saprei in verità se gli piacesse o no ma, quando gli portammo un piatto di pollo fritto, che faceva sentire il profumo di spezie orientali, finì tutto in silenzio mentre tutti gli altri lo guardavano zitti zitti. E poi per un po’ stette ad ascoltare con gli occhi soddisfatti tutte le nostre chiacchiere e, quando fu stanco, con piena tranquillità se ne tornò a casa sua. Tutti accompagnarono la sua schiena alla porta con uno sguardo d’affetto.
Al mattino dopo uscii sulla terrazza per prendere un po’ di aria fresca e vidi che le arance erano diventate nere. Mi avvicinai e capii che si erano riempite di formiche, attirate dal nettare. Per un attimo mi venne la pelle d’oca e poi cominciai a pulirle, una per una. Non avevo mai visto formiche sulle arance ma, pensandoci bene, capii che proprio il fatto che non fosse mai successo era un fenomeno anormale.
Salvo Foti (http://www.lastampa.it/2015/12/03/societa/cucina/dove/in-cantina/leroe-dei-vigneri-sulletna-2i65ouuXHLSzDqX0CU8XsL/pagina.html ), un nostro amico, è molto conosciuto ed è considerato come uno dei migliori enologi italiani ed i vini prodotti dal gruppo “i Vigneri”, guidato da lui, possiedono dei valori molto importanti, non soltanto per la grande ricerca sulla vitivinicoltura tradizionale siciliana e per la loro finezza, ma soprattutto per una produzione che, superando diversi ostacoli culturali e pratici, ha sempre mantenuto una grande dignità.
Uno dei motivi per cui io provo una stima enorme per Salvo e distinguo i vini dei Vigneri da tutti gli altri è che, pur possedendo una raffinatezza immensa che ti cattura immediatamente, mi fanno sentire, a brevissima distanza, la presenza della terra da cui li hanno fatti nascere. Siamo andati a trovarlo in Sicilia diverse volte ma, proprio durante questo viaggio, capii il motivo per cui Salvo è in grado di produrre i vini in questo modo: lui si ricorda intensamente l’immagine di come lavorava suo padre e, tornando a casa, lo aspetta Vincenzino che zappa la terra, ancora oggi come facevano “i Vigneri” nel 1400. E questo fa luce sul suo cammino.
Sul traghetto per ritornare al nord io e Claudio non potevamo più smettere di sbucciare arance. Ma sapevamo anche che, quando non avremmo più avuto le arance da sbucciare, non avremmo più potuto degustare per un po’ quella Sicilia aspra, vivace, dolce come un nettare sprigionante freschezza, che conosciamo. Spaccando a metà un frutto appena sbucciato, Claudio mi disse felicemente: “La prossima volta che lo sento gli dirò che le arance di Vincenzino sono molto più buone dei suoi vini. Si arrabbierà da matti, eh!”.