All'Arcangelo di Roma, un vero oste romano che sa raccontare “apertis verbis”, ovvero senza peli sulla lingua, la cucina della sua città.
Nel raccontare il ristorante l'Arcangelo di Roma (via Belli, 59/61 – tel 063210992), corona radiosa del nostro Gatti Massobrio, anche noi siamo partiti dall'incipit di Paolo Massobrio: “Arcangelo Dandini cuoco, ma anche scrittore e ospite di congressi e trasmissioni. Ma se lo cercate lo trovate sempre qui, dalle parti di Castel Sant’Angelo, con la sua cucina romana d'antan riattualizzata da una freschezza senza pari.” Difficile non parlare di lui se si parla del suo ristorante, difficile resistere alla facondia allegra di un cuoco romano di quinta generazione come Arcangelo Dandini, classe 1962. Inutile farsi raccontare perché ha scelto di fare il cuoco, ce l'aveva nel sangue, pensiamo noi, ma lui invece ci dice...:
In realtà io ho fatto il Liceo Classico, non la scuola alberghiera, perché la mia famiglia non voleva che io diventassi un cuoco. Ed io preferisco definirmi oste piuttosto che chef, perché del ristorante ho vissuto tutto, non solo la cucina; sono stato anche addetto in sala e sommelier.
Perché quest'ostilità della sua famiglia nei confronti di un mestiere che avete praticato per generazioni?
Forse perché conoscevano bene la fatica e il sacrificio che richiede. Vede, oggi la tecnologia è venuta molto in aiuto a chi lavora in cucina, ma io che ho visto fare questo lavoro da parte di mio padre (Stefano Dandini gestiva La Doganella di Rocca Priora) e che l'ho sentito raccontare da mia nonna so che è stato sempre un mestiere usurante, per cui si rimane in piedi per intere giornate dentro a una cucina esposti al caldo del fuoco. Dalle foto e dai racconti di famiglia (già la mia trisnonna era un'oste e stiamo parlando quindi del 1800) ho ancora le immagini degli animali interi che arrivavano in cucina ancora da squartare e sezionare e delle grandi marmitte in ottone appese a cuocere al focolare per ore. Lavori pesanti per un uomo, figurarsi per una donna, eppure nella mia famiglia a cominciare sono state le donne, forse abbiamo resistito perché eravamo tutti belli grossi e alti intorno all'1,80.
Con una storia familiare simile alle spalle avrà ereditato libri di ricette dai suoi avi a cui attingere...
Sicuramente devo alla mia famiglia la capacità di trattare la carne, in particolare la cacciagione (arrivo da una famiglia di cacciatori) e poi una vasta conoscenza delle erbe spontanee che crescono nella campagna romana e che mi procuro grazie a una rete di fornitori sul territorio. Ma le ricette sono mie e raccontano spesso un mondo ancestrale che ho conosciuto e sentito raccontare fin dall'infanzia. È così per il mio Viaggio a Rocca Priora, un antipasto fatto con un uovo in camicia, erbe spontanee della campagna romana, polline, manna e tre spezie. E come le dicevo la cacciagione: i gnocchi alla selvaggina con ragù di lepre e cioccolato Sur del Lago, la fricassea di lepre, la starna alla Diavola cotto al fuoco con il miele...
Mi perdoni, ma in tempi di protezione animali e lotta alla caccia, nessun cliente si è mai scandalizzato di tutta questa cacciagione?
Assolutamente no. Io non seguo le mode del momento, e ho la mia identità come cuoco, chi viene da me (anche la prima volta) sa cosa aspettarsi. Non amo le ipocrisie, io arrivo da questo mondo e la mia è una proposta di cucina fortemente identitaria. So che può risultare forte, ma la mia cucina è così, come la mia pasta “al chiodo”, o la si ama o la si odia.
Non so perché ma quando la sento raccontare delle ricette sulla cacciagione mi vengono in mente le ricette del De Re coquinaria di Apicio... Lei come si colloca rispetto alla storia della cucina romana, è un repertorio a cui attingere?
Io ho studiato la storia della Cucina Romana e mi creda ci sarebbe un repertorio immenso perché si tratta di una cucina ricchissima, fatta per i potenti come Papi e Imperatori e che ha superato i 2000 anni di età, ma nulla è rimasto oggi nella cucina tradizionale moderna. C'è stata la cucina della Roma imperiale, quella di Apicio che lei ha citato; c'è una lunghissima tradizione di cucina Giudaico Romanesca, completamente dimenticata; c'è stata una cucina rinascimentale, quella che veniva servita alle corti di Papi e Cardinali, che è andata anch'essa perduta. Tutto questo patrimonio è stato dimenticato, e non so se a riproporlo incontrerebbe oggi il favore del pubblico. No, oggi per cucina tradizionale romana si intende la cucina popolare del Testaccio, il quartiere nato nel 1870 con la costruzione degli argini del Tevere. È lì che è nata per intenderci la famosa carbonara, in un quartiere povero e abitato prevalentemente da pastori immigrati da altre parti d'Italia. La cucina testaccina è diventata la cucina simbolo della Grande città di Roma, queste sono le ironie della storia e i Romani ci sono abituati.