I bar stanno riaprendo, ma la loro funzione sociale è messa in dubbio
Cosa abbiamo fatto nei mesi di lockdown, noi orfani dei bar? Ci siamo arrangiati. Abbiamo dato fondo alla cantina, abbiamo ordinato birre in delivery, abbiamo sperimentato il divertissement della miscelazione. Magari partendo dalle basi: la metrica in terzine di un classico Negroni, l'essenzialità rinfrancante di un Gin Tonic. Le prime settimane di reclusione forzata sono state un rincorrersi di aperizoom quotidiani, per dimostrarsi di essere sociali e vivi. Ma ben presto lo slancio è scemato, perché la realtà è proprio un'altra cosa.
Chiusi a casa, abbiamo capito definitivamente che un bar, un pub, un qualsiasi locale, non è mai soltanto quello che si beve, ma piuttosto come ci si sente. E a noi sono mancate l'atmosfera, la gestualità di chi sta dietro al bancone e spilla una birra o prepara un Old Fashioned, le chiacchiere con gli amici, persino le colonne sonore di dubbio gusto di certi locali.
Da qualche giorno le maglie si stanno allentando. Alcuni bar hanno riaperto, altri lo faranno a breve, cercando di zigzagare come Tomba tra regole e norme di difficile interpretazione e attuazione, che vorrebbero trasformare l'esercente in uno sceriffo. Ma sono bastate poche serate per sentirsi levare un coro sdegnato da più parti – media e istituzioni – verso una movida incontrollata, come se tutta la colpa del grande casino in cui ci siamo ritrovati fosse la nostra birra con gli amici. I bar – e noi frequentatori – sono diventati il capro espiatorio perfetto, il luogo assolutorio di colpe che, evidentemente, risiedono in altri luoghi.
Certo, ci saranno state alcune esagerazioni da biasimare, ma più spesso si è trattato di polemiche strumentali, ingigantite da foto rubate con potenti teleobiettivi – a Milano sui Navigli (vedi la foto sopra) come a Torino o a Genova. Il messaggio è evidente: la coda al supermercato, in posta o all'Ikea è accettata, quella al bar no, come se la socialità dei luoghi di aggregazione non fosse essenziale alla vita umana tanto quanto un etto di prosciutto o una Billy da montare. Come se l'industria dell'accoglienza non fosse una vera industria che dà lavoro a centinaia di migliaia di persone, di uguale dignità di una Fiat o di un grande gruppo bancario.
È e sarà difficile ripartire. Per chi si ritrova stritolato da costi fissi altissimi e incassi ridotti di un terzo. E per noi consumatori che dovremo abituarci – almeno per un po' – a nuove regole che attutiscono il piacere della convivialità e che un po' fanno passare la voglia. Ma se non confondiamo il distanziamento fisico con il distanziamento sociale - il primo oggi inevitabile, il secondo da combattere sempre e comunque - forse potremo farcela. Ognuno interpretando la sua parte: noi consumatori con il nostro romanticismo e i pochi soldi rimasti, gli osti con lo spirito imprenditoriale che di certo non gli manca, lo Stato con un sostegno concreto e regole certe e applicabili.
Tutti noi abbiamo voglia di ritornare come le star a bere del whisky al Roxy Bar. Di appollaiarci allo sgabello del nostro bancone preferito. O di stravaccarci in un dehors, con una buona birra o un cocktail Martini nel bicchiere, illuminati dall'ultimo raggio di sole. E quando tutto sarà passato, potremo ripensare con un sorriso ai pochissimi lati positivi della faccenda. Come la morte dell'apericena. Di quella no, non ne sentiremo la mancanza.