In Giappone i cachi si appendono per farli seccare per apprezzarne così la delicatissima dolcezza
Il trenino con un vagone solo si fermò lentamente alla fermata in mezzo alle risaie e si aprì la pesante porta. Saltarono giù i bambini al ritorno da scuola, uno dopo l’altro. Scesero di corsa tutto d’un fiato e danzarono sopra la neve gelida la cui spessa coltre rivestiva ogni cosa, risaie, canali d’irrigazione, argini, tutto. Anche il mio cane da caccia, che aspettava il mio arrivo, prese in bocca la mia borsetta e ballò per gioco. Noi, bambini del paese di neve, approfittando del nostro piccolo corpo e con gli stivali di gomma un po’ grandi, eravamo in grado di fare con facilità un miracolo, come Chance il Giardiniere, quando alla fine del bellissimo film se ne va camminando sull’acqua. Il senso di libertà che ci dava poter tornare a casa passando dove volevamo, senza una direzione precisa, regalava un calore diverso alla punta dei nostri piedi gelati.
Sarebbe stato meglio entrare in casa prima che il sudore raffreddasse il corpo, ma mi fermavo spesso alla capanna con le finestre aperte. Era per prendere di nascosto uno o due cachi secchi appesi sotto la tettoia da mia nonna. Dalle corde di circa un metro sospese, pendevano i frutti del caco pelato, appesi per il rametto attaccato al calice, a spargere chiazze di arancione vivido sulla parete tutta annerita della capanna.
I cachi in genere sono di due tipi: quelli dolci e quelli tannici. I primi sono quelli che si trovano nei negozi in Giappone mentre invece, in Italia, sono più diffusi i secondi. Negli ultimi anni anche quelli dolci sono apparsi dal fruttivendolo con il nome enigmatico “cachi mela”. Questo frutto di origine asiatica contiene un’alta percentuale di sostanza tannica che, mentre rimane solubile, dà una sensazione di astringente in bocca. Infatti, in Italia, vengono consumati quando sono completamente maturi, così che il tannino diventi indissolubile e il frutto dolce. In Giappone di solito, per ottenere gli stessi effetti, li fanno seccare.
Entravo nella capanna e, scegliendo quelli che, a mio avviso, sembravano più morbidi, me ne riempivo la bocca. Soprattutto quelli su cui si vedeva raggrumato il fruttosio, chiamato “shisou”, lasciavano in bocca una dolcezza delicatissima. Dopo la scorpacciata guardai in alto i cachi appesi e notai che le fatiche di mia nonna erano finite perlopiù in calici miseramente pendenti, senza nessun frutto. Sia i danni del furto sia l’autore del reato erano evidenti. Ma mia nonna non mi rimproverò mai, anzi mi sembrava fosse contenta.
Un’altra volta, era una sera di tardo autunno, lei si ritirò presto nella sua stanzetta per attorcigliare una corda. Facendo passare qualche filo di paglia fra le dita del piede, con le mani spesse e ruvide, quasi da uomo, a causa dei lavori in campagna, sapeva confezionare corde bellissime. Il giorno dopo, verso l’ora in cui tornavo da scuola, queste corde le trovai appese con una serie di 8 o 10 cachi tannici a riempire tutto lo spazio sotto la tettoia.
Entrata in casa, tenendo altri 5 e 6 cachi perfettamente seccati sopra il suo grembiule, sporse la testa dalla sua camera e mi accolse. Ci sedemmo insieme sulla veranda tradizionale e cominciammo a mangiarli. Allora, come consuetudine, lei raccontò della vita dura della famiglia subito dopo la guerra. Anche se la mia famiglia aveva potuto continuare l’attività agricola, lei, per ricevere la razione di viveri necessaria alla sussistenza, aveva sempre avuto tanti problemi. Portava un saccone di riso (60 kg), caricandolo sul cavallo fino ad un paese vicino al mare, per ottenere in cambio una manciata di sale. Quel giorno avevamo i cachi secchi in mano ma, un altro giorno, lei mi raccontò le stesse cose con le patate dolci al vapore o la vinaccia del sakè arrostita e zuccherata e, in un giorno di festa, davanti a “ohaghi”, polpette di riso amidoso coperte di pesto di fagioli azuki. Dopo questi racconti le era indispensabile pregare il Budda per ringraziare di avere, anche in quel giorno, conservato la buona salute, il dono più grande del cielo.
Si ringrazia con la preghiera prima di toccare con le bacchette i piatti preparati. Si finiscono tutte le cose preparate anche se non ti piacciono. Non si deve sporcare il tavolo mentre si mangia. In Giappone viene ancora oggi considerato molto importare dare un’educazione ai bambini cominciando già dalla tavola e tutti i genitori vi si dedicano con attenzione. Mi toccò finire piangendo carote e peperoni che odiavo e imparai per forza che, di ogni pesce, la parte più brutta è spesso la più buona. Queste diventarono le mie prime esperienze di saper pazientare e contribuirono a formarmi un carattere curioso. Ma, se i genitori sono responsabili di darci l’educazione necessaria, i nonni possono permettersi di viziarci un po’ e furono proprio i racconti involontariamente educativi di mia nonna e l’esperienza della sua cucina dai gusti tradizionali e genuini alla fine a far crescere in profondità la mia cultura gastronomica.
Non c’è da stupirsi che esista anche in Italia questa positiva influenza fra le generazioni perché, soprattutto in campagna il legame familiare è ancora più forte. Fra gli amici del Golosario Luca Di Piero di Viterbo, produttore della miglior crema di nocciola, ha scelto di seguire il mestiere di suo nonno piuttosto che fare l’avvocato come suo padre mentre Francesco Pascale, che produce l’inarrivabile liquore di China sotto il Vesuvio, nell’infanzia, quando chiese a suo nonno di lavare anche lui le bottiglie nella sua distilleria, si sentì rispondere che quello era un lavoro da operai, che lui invece avrebbe dovuto imparare l’uso delle erbe. Per ambedue furono proprio i nonni le guide che aprirono la porta verso il futuro.
Sono qui da più di 100 anni, hanno resistito ai venti gelidi dell’inverno senza perdere il loro nome giapponese. Gli alberi di cachi disseminano i loro frutti colorati qui e là per la penisola. Ma soprattutto in Piemonte, dove abito, ce n’è uno quasi in ogni giardino. Ogni volta che li vedo, insieme alla forte nostalgia per quelli secchi di mia nonna, mi convinco che, quando ho deciso di aprire la porta dell’Italia e di entrarvi, non è stato un caso.