Nella sua piccola cantina, addormentata sotto i rami di un grande salice, circa 10 anni fa, Teobaldo Cappellano passò qualche ora insieme a un gruppo di giovani giapponesi che sognavano di diventare cuochi e dimostrò loro fisicamente il significato delle parole incise sulla controetichetta dei suoi vini.
È bellissimo essere capaci di proclamare una propria convinzione o un’ideologia. Ma essere capaci di dimostrarla nella propria vita credo sia ancora più bello. Perché la ricchezza materiale e la complessità dei fenomeni sociali di questo mondo moderno potrebbero distrarre anche la gente che ci tiene o far dimenticare il vero peso delle loro parole con molta facilità.
… credo nella libera informazione, positiva o negativa essa sia. Penso alle mie colline come una plaga anarchica, senza inquisitori o opposte fazioni, interiormente ricca se stimolata da severi e attenti critici; lotto per un collettivo in grado d’esprimere ancor oggi solidarietà contadina a chi, da Madre natura, non è stato premiato. E’ un sogno? Permettetemelo.
Nella sua piccola cantina, addormentata sotto i rami di un grande salice, circa 10 anni fa, Teobaldo Cappellano passò qualche ora insieme a un gruppo di giovani giapponesi che sognavano di diventare cuochi e dimostrò loro fisicamente il significato delle parole incise sulla controetichetta dei suoi vini.
In un pomeriggio d’inverno dal freddo particolarmente penetrante, risuonai il citofono dopo 5 minuti dalla prima volta, trattenendo la preoccupazione. Ancora nessuna risposta. Dietro la mia schiena stavano in attesa una ventina di ragazzi, tenendo chiuso con la mano il collo del capotto e battendo i piedi per terra per resistere al freddo. L’insegnante che li accompagnava dal Giappone mi propose, con il broncio, di risalire sul pullman per tornare indietro. Non sapevo più cosa fare. In verità temevo anche un’altra cosa. Avevo convinto a tutti i costi Teobaldo, che, come sapete anche voi, godeva di stima universale nel mondo del vino, ad accettare una visita così numerosa ma, in pullman, questi pulcini di cuochi mi avevano confessato la loro poca conoscenza del vino (neanche del Barolo sapevano nulla!) e di aver appena cominciato un corso da principianti. Anche se ci fosse stato aperto quel cancello, per il momento fermamente chiuso, l’incontro sarebbe stato probabilmente poco proficuo, senza poter trovare un punto di scambio. Ero quasi rassegnata ma, mentre cercavo in tasca il mio cellulare per chiamare l’autista dell’autobus, il portone si cominciò ad aprire.
Quel giorno Teobaldo era comparso sorreggendo tutto il suo corpo su una stampella. Non c’era neanche bisogno di chiedere il nome della sua malattia e bastava vedere quanto stesse stringendo i denti, per capire che il motivo di quella lunga attesa era il dolore. Anche nel corso della nostra telefonata della sera precedente non aveva minimamente accennato alle sue condizioni di salute e aveva voluto comunque ricevere quei ragazzi, per mantenere la promessa che mi aveva fatto qualche mese prima. In pullman i giovani erano stati piuttosto chiassosi e questo mi preoccupava ma lì, all’improvviso, smisero le loro chiacchiere. Nel presentare Teobaldo, l’emozione trapelava nella mia voce.
“Come vedete oggi non sono in gran forma. So che è maleducato lasciarvi in piedi e perdonatemi, ma io vi parlerò seduto. Se volete, potete avvicinarvi ancora.”
Si sedette su una sedia molto lentamente e i ragazzi, guardandolo con occhi di grande rispetto misto a curiosità, fecero un piccolo cerchio intorno a noi due, ma stavano sempre in silenzio.
“Voi studiate il vino?” Uno dei ragazzi rispose che avevano appena cominciato il corso.
“Conoscete il Barolo?” Questa volta tutti scossero la testa per dire no.
Allora Teobaldo disse con calma “A questo punto provate a guardare attentamente questa cantina e chiedetemi tutto quello che vi salta in mente. Va bene anche una cosa banale, ma senza esitazione.”
Un ragazzo alzò la mano e disse educatamente: “Quanti anni possono durare le botti in legno che si trovano qui?”
“Guardate quella botte grande lì. Quella è stata fatta qualche decina di anni fa. Un uomo di una cantina di questa zona aveva manifestato l’intenzione di buttarla perché è vecchia. Gli ho detto ‘sei stupido.’ L’ho portata qui e l’ho riparata. E ancora oggi fa il suo lavoro magnificamente.”
I Giapponesi sono timidi e non sono abituati a parlare davanti a molte persone ma i ragazzi continuavano, una domanda dopo l’altra.
“Come mai fra queste botti ci sono misure diverse, grandi e piccole?”
“Perché quelle botti sono rotonde invece quella è ovale?”
“Qual è la differenza fra un vino buono e quello no?”
“Ah, questa è una domanda difficile. Io amo questo posto dove viviamo e ci tengo ad esprimere la caratteristica del terreno e la natura della mia terra nei vini che produciamo. Da queste parti fin dal Medioevo coltivavano l’uva: si racconta che, quando arrivò il Barbarossa ad attaccare queste terre, vide migliaia e migliaia di pali, ma solo le punte che sporgevano dalla nebbia e le prese per lance in mano a soldati… così se ne scappò via. Questa, naturalmente, è una leggenda. Ma parlando del vino Barolo, va prodotto solo con un vitigno: il “nebbiolo”, il cui nome deriva dal fatto che giunge a maturazione tardi, nel periodo della nebbia. Un vino di monovitigno va fatto solo con quel tipo d’uva ed è molto difficile farlo bene perché è molto influenzato dalla condizione climatica o da altre magagne e non si può correggerlo con un altro vitigno. Ma proprio per questo può esprimere magnificamente il nostro terroir. Sia io che la mia famiglia crediamo che i nostri vini siano buoni allora abbiamo pensato di venderli. Auguriamo veramente anche a chi compra un nostro vino che gli possa piacere come piace a noi.”
In quel giorno Teobaldo trascorse con quei ragazzi giapponesi tre ore, senza mai guardarli con pregiudizio; sapeva ascoltare le loro domande ingenue e rispondere diligentemente con parole sue, così si guadagnò tutta la loro stima, come aveva sempre fatto con i grandi esperti e gli appassionati italiani di vini.
Teobaldo si mise nelle foto insieme agli studenti e la sua gatta bianca, Marta, sulla spalla. I giovani tenevano sotto il braccio una bottiglia acquistata come buon ricordo e non la mollavano per nessuna ragione, come un grande tesoro. Mi sembrava che nel frattempo, anche a quell’uomo, fosse tornata un po’ di vitalità.
“Esco un attimo a comprare un giornale. Ma torno subito.” Mi disse così e si allontanò dalla sua cantina con i passi molto più leggeri di prima.
Dopo neanche tre mesi da questo episodio lui ci lasciò. E quest’anno il Piemonte aspetterà il 10° anno di vendemmia senza lui. Nel corso del tempo sono successe tante cose. Una volta, per le piogge, una parte della sua vigna fu portata via dall’acqua. Io e mio marito ci preoccupavamo moltissimo invece Augusto, suo figlio, ci disse serenamente: “Questa è la natura. Non dobbiamo spaventarci.”
Così l’attività di famiglia è andata avanti per generazioni, fino ad oggi.
Mio marito ci tiene moltissimo che io comprenda “la piemontesità”. Quando ero appena arrivata non potevo che fantasticarci sopra ma ora, quando ci penso, vedo in alto il sorriso di Teobaldo.
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